Non ci siamo messi in testa di giocare a nascondino e andare alla ricerca dei cantautori, piuttosto preferiamo una caccia al tesoro con indizi che portano a diversi punti in cui i cantautori potrebbero nascondersi.
Negli anni ’60, ’70 e ’80 le canzoni non erano semplicemente canzoni, avevano un nome, una fisionomia e una personalità. La letteratura si fondeva alla poesia e la poesia alla musica. Si trattavano temi di grande rilevanza sociale, a volte con la pesantezza del mondo sulle spalle, a volte con l’indifferenza tipica di quella teatralità inglese del tempo.
De André in un’intervista in cui discuteva sul brano Il re fa rullare i tamburi, disse:
Se continuo a non approfondire o addirittura a mistificare la natura delle persone che incontro allo scopo di metaforizzarne i comportamenti, finirò per rimanere senza nessuno con cui confidarmi seriamente, seduto in mezzo a una galleria di miti.
C’era poi il fatto che molti dei cantautori di quegli anni, se non la maggior parte, rifiutavano le moine dell’industria discografica, lo show business, i suoi passaggi obbligati, le regole non scritte.
Al contrario, oggi, molte canzoni nascono minime e senza la vocazione di farsi altro, cedendo al finto corteggiamento del capitale musicale.
Nei Novanta si è talvolta giocato a travestirsi senza l’investimento emotivo e l’immedesimazione che caratterizzava l’era in cui la musica era essenzialmente vista come forma d’arte o di ribellione. Lo stile musicale non era una scelta consumistica, ma una questione di urgenza espressiva, fedeltà generazionale o politica identitaria.
Ma forse per il grande impatto che i trent’anni precedenti avevano avuto, degli anni Novanta si ha comunque un pensiero florido a livello musicale.
Il vuoto degli anni Duemila
In questi anni moltissime riviste di critica musicale specializzata si dimostravano perplesse di fronte a una prospettiva in cui la nostalgia bloccava la capacità culturale di guardare avanti, oppure aveva semplicemente smesso di progredire.
I Duemila preferivano offrire un concentrato di tutti i decenni precedenti: una simultaneità della cronologia pop che abolisce la storia, erodendo l’autocoscienza del presente.
Abbiamo assistito a un frenetico traffico di micro-trend, sottogeneri e stili ricombinanti, ricomposti e assemblati. Il materiale musicale rivitalizzato e rinnovato lasciava intravedere comunque una barba e dei capelli grigi di qualcuno che c’era stato e che giocava ancora con le vecchie idee.
Però, sempre in questi anni, c’è stata la trasformazione di gran lunga più imponente e cioè quella che ha interessato le modalità di consumo e distribuzione. Siamo diventati vittime della nostra inarrestabile capacità di immagazzinare, organizzare, utilizzare istantaneamente e condividere una quantità smisurata di dati: basti pensare a YouTube e all’invenzione dell’iPod.
Secondo il Wall Street Journal, se il business dei concerti dei primi anni Duemila puntava sulle vecchie glorie, era anche perché l’industria discografica non aveva prodotto abbastanza artisti di primo livello.
Qualcosa cambia…
Una svolta sulla nuova scuola dei cantautori arriva verso gli anni dieci del Duemila. Le canzoni acquistarono significato nel momento in cui si compresero le nuove relazioni stabilite con altri testi e media. Nacquero le etichette indipendenti e si attivò il circuito dei piccoli live club, circoli Arci, centri sociali. Da qui una scalata verso una trasformazione che vedrà nel 2017 il boom dello streaming superare i ricavi del fisico, raddoppiando quelli dei download e imponendosi definitivamente come settore trainante dell’industria musicale globale.
La figura del cantautore nel tempo si è evoluta talmente tanto che per comprendere chi siano i cantautori oggi abbiamo bisogno che la storia ci porti un pezzettino più avanti negli anni. Tra nuove avanguardie, nuovi attori e nuovi modi d’intendere e fruire la musica. Solo allora sapremo ridare un volto ai cantautori di oggi.
Intanto, che fine hanno fatto i cantautori fatichiamo a dirlo, ma per certo, sappiamo che, come diceva Reynolds nel libro Retromania:
I dischi sono noi, rappresentano una porzione rilevante di ciò che abbiamo fatto del nostro tempo su questo pianeta, le ore d’impegno e amore di cui nessuno sa