La giornalista musicale Liz Pelly si è dedicata per anni ad un’inchiesta dentro i meandri di Spotify, inchiesta che si è tradotta in un libro. Questo articolo si basa in gran parte sul suo lavoro, che trovate in versione integrale qui.
Le radici dell’inchiesta partono dal 2017, quando si iniziava a sentir parlare degli artisti fantasma. Nel 2017 le playlist create da Spotify iniziavano a contribuire in maniera significativa ai guadagni dell’industria musicale, soprattutto per le etichette e gli artisti indipendenti. Riempire queste playlist di musica libera da diritti d’autore significava quindi ridurre sensibilmente i costi per l’azienda, risparmiando direttamente sulla pelle degli artisti.
Spotify non sarebbe Spotify senza gli artisti
Qui si apre il primo tema: Spotify ha senz’altro avuto un impatto enorme sul modo di fruire la musica negli ultimi 10-15 anni, creando un prodotto talmente amato dal pubblico da diventare indispensabile per gli artisti. Le playlist originali di Spotify, poi, sono state un’arma potentissima per conquistare l’affetto del pubblico. La verità lapalissiana, però, è che il legame così stretto tra Spotify e gli ascoltatori si è potuto creare solo grazie a ciò che quelle playlist contengono. La fama di Spotify non sarebbe certo arrivata dov’è adesso grazie a jingle pubblicitari e muzak. Spotify è Spotify grazie agli artisti e alla propria capacità di saperli sfruttare per arrivare al cuore degli ascoltatori.
Le playlist coinvolte in questi primi rumours erano soprattutto quelle strumentali, come jazz, chill o peaceful piano. La risposta di Spotify era sempre la stessa:
“Non creiamo e non abbiamo mai creato artisti “finti” e li abbiamo messi nelle playlist di Spotify. Categoricamente falso, punto e basta.”
Nel frattempo, lo scrittore David Turner ha illustrato con dati e numeri come la playlist “Ambient Chill” di Spotify fosse stata ripulita da brani di artisti come Brian Eno o Bibio, rimpiazzati da nomi sconosciuti. Non per forza un male, se non fosse che questi nomi sconosciuti sono artisti che non esistono. Si tratta infatti di pseudonimi creati appositamente da Epidemic Sound, una start-up che crea musica libera da diritti d’autore: il tipo di materiale di repertorio spesso utilizzato come sottofondo per pubblicità o video. Tra i principali investitori, indovinate un po’ chi troviamo? I fondatori di Spotify.
I rumour iniziano ad avere basi più solide ma restano, in ogni caso, soltanto voci dalle quali l’azienda prende risolutamente le distanze.
Il programma di Spotify “Perfect Fit Content”
Nel 2014, Spotify stava aumentando i suoi investimenti nella tecnologia di personalizzazione algoritmica. Questa innovazione era intesa ad aumentare l’importanza degli artisti riducendo al minimo il potere delle major, delle stazioni radio e di altri “guardiani” della vecchia industria musicale; l’idea era che, al loro posto, ci sarebbe stato un sistema che avrebbe semplicemente premiato le tracce che venivano trasmesse meglio.
La realtà era che Spotify era soggetta all’influenza sproporzionata del potere delle major: Sony, Universal e Warner, insieme, possedevano una quota del 17 percento dell’azienda al momento del lancio. Queste etichette controllavano circa il 70 percento del mercato delle registrazioni musicali e per loro l’ascesa di Spotify avrebbe presto dato i suoi frutti.
A metà degli anni 2010, lo streaming si era consolidato come la fonte di guadagno principale per le major, che stavano rastrellando denaro dai milioni di abbonati paganti di Spotify dopo oltre un decennio di entrate in calo. Ma mentre la società di Daniel Ek stava pagando un sacco di soldi alle etichette e agli editori (circa il 70% delle sue entrate) non aveva ancora realizzato un utile netto, cosa che gli azionisti avrebbero presto richiesto. Spotify poteva scegliere di rimediare in diversi modi: aumentare le tariffe di abbonamento, tagliare i costi o trovare modi per attrarre nuovi abbonati.
Sfruttare la passività degli ascoltatori
Secondo una fonte vicina all’azienda, la ricerca interna di Spotify ha mostrato che molti utenti cercavano soltanto qualcosa che fungesse da colonna sonora per le loro giornate, come una playlist per lo studio o magari un sottofondo per la cena. Spesso gli ascoltatori non erano nemmeno consapevoli di quale canzone o artista stessero ascoltando. Di conseguenza, il ragionamento dell’azienda era piuttosto logico: perché pagare royalties a prezzo pieno se gli utenti ascoltano solo a metà? È probabile che da questo ragionamento sia scaturita l’idea del programma “Perfect Fit Content” (PFC).
La scrittrice Liz Pelly ha avuto un ruolo fondamentale nell’accendere i riflettori su questo programma ideato da Spotify. In sostanza, il PFC consisteva in forti incoraggiamenti (presto trasformati in vere e proprie pressioni) da parte dei piani alti verso gli editor delle playlist per far loro aggiungere certi brani. Un ex editor di Spotify ha riferito che c’era preoccupazione per l’origine di questi brani: i superiori erano elusivi su questo tema. Il fatto più grave, però, consisteva nell’attitudine assunta dai piani alti: “se le metriche aumentano, continuiamo a sostituire sempre di più, perché se l’utente non se ne accorge va bene così”.
Musica e suoni non sono la stessa cosa
E qui si apre il secondo tema: la musica da ascensore, quella per riempire gli ambienti senza alcuna pretesa né cultura musicale, esiste da tempo. Non è un delitto proporla. Non è uno scandalo che sia anche sulle piattaforme di streaming. Ma inserirla di soppiatto, mescolandola gradualmente nelle playlist in modo da ingannare il pubblico non è la stessa cosa. Si può paragonare ad un negozio di abbigliamento che costruisce la sua fama con maglioni 100% cachemire ma che, nel tempo, inizia ad inserire e poi aumentare percentuali di poliestere nei propri maglioni fintanto che gli acquirenti non se ne accorgono. Oppure allo spacciare per biologico o sostenibile qualcosa che non lo è.
Ricordiamo che ciò che abbiamo descritto è una pratica che Spotify ha sempre negato. Ma non aveva fatto i conti con Liz Pelly.
L’inchiesta della scrittrice non si basa su voci, ma è una ricerca sviluppata nel corso di anni, passando attraverso viaggi in Svezia, interviste ad ex editor di playlist e intrusione nei gruppi Slack dei dipendenti. Insomma, non chiacchiere, ma un lavoro giornalistico di grande spessore.
Quando le proteste degli editor verso il PFC iniziarono a diventare un po’ troppe, l’azienda iniziò a sostituirli. Nel 2023, diverse centinaia di playlist erano monitorate dal team responsabile del PFC. Più di 150 di queste, tra cui “Ambient Relaxation,” “Deep Focus,” “100% Lounge,” “Bossa Nova Dinner,” “Cocktail Jazz,” “Deep Sleep,” “Morning Stretch” e “Detox,” erano composte quasi interamente da brani di artisti fantasma.
I dirigenti di Spotify giustificarono la pratica non solo sostenendo che i brani venivano utilizzati solo come musica di sottofondo, quindi gli ascoltatori non avrebbero notato la differenza, ma anche adducendo alla bassa disponibilità di musica per questo tipo di playlist.
Se la prima affermazione può avere basi logiche e fattuali, la seconda si posiziona piuttosto in alto nella Scala Mazzarri.
Il PFC finì per essere gestito da un piccolo team chiamato Strategic Programming (StraP), che nel 2023 contava dieci membri. Sebbene Spotify neghi di cercare di aumentare la quota di streaming del PFC, i messaggi interni su Slack mostrano i membri del team StraP che analizzano la crescita trimestre per trimestre e discutono su come aumentare il numero di streaming di PFC.
Quando nuovi fornitori di PFC venivano inseriti, i membri senior dello staff notificavano agli editor di occuparsi delle loro proposte. Questo è un messaggio da parte di un membro dello staff StraP:
“Abbiamo appena integrato Myndstream. Per favore, date priorità all’inserimento di questi brani poiché si tratta di un nuovo partner, così possono ricevere dei feedback diretti”.
Cosa resta del rapporto tra artista e pubblico?
Rimuovere veri artisti di musica classica, jazz e ambient dalle playlist popolari e sostituirli con musica di bassa qualità da stock significava stravolgere vere culture musicali, tradizioni autentiche all’interno delle quali gli artisti cercavano di guadagnarsi da vivere. Questo progetto contraddiceva molti degli ideali su cui era stata costituita Spotify, presentata come la piattaforma definitiva per la scoperta musicale. Chi sarebbe entusiasta nello “scoprire” un mucchio di musica da stock?
Liz Pelly nella sua inchiesta ha intervistato un musicista jazz che era stato ingaggiato da uno dei più grandi fornitori di PFC per Spotify. Aveva firmato un contratto di un anno per creare tracce anonime per una compagnia di produzione, un impegno che lui stesso definiva “brain-numbing” e “completamente privo di gioia“.
Per creare nuovi brani per PFC bisognava prima studiare i vecchi PFC: un loop autoalimentato di materiale che viene imitato ripetutamente (la copia di una copia di una copia…). Durante le registrazioni era presente un sound engineer che dava indicazioni: di solito, queste si riassumevano in “suona più semplice”.
Che male c’è?
E qui si apre il terzo tema: in fin dei conti, il suddetto musicista jazz ha accettato volontariamente di partecipare a questo genere di produzione. Ci si potrebbe chiedere che male c’è? Che male c’è nel proporre a qualcuno che cerca di vivere con la propria musica un lavoro che taglia via tutta la parte creativa e che compra le sue abilità per pochi spiccioli, creando musica che ha il preciso scopo di tagliarlo fuori dai guadagni degli streaming e dalla proprietà intellettuale?
Si potrebbe controbattere dicendo che sono semplicemente le leggi del mercato a innescare queste dinamiche, e che ai musicisti non resta che adattarsi a nuovi modi di monetizzare il loro talento e le loro abilità. La vera domanda è: a noi sta bene? A noi che siamo il pubblico, i fruitori finali delle creazioni degli artisti. A noi va bene mescolare nello stesso piano Mozart, i Pink Floyd, Lucio Dalla e i jingle pubblicitari creati per lo spot di uno sgrassatore?
Cosa resta della cultura musicale, quando questa viene prodotta in serie solo per assomigliare il più possibile ai brani che ci piacevano ieri? Ad oggi i generi più impattati da questa pratica sono quelli puramente strumentali, ma non è difficile immaginare che non sarà così per sempre.
Continuare a erodere il ruolo dell’artista significa anche preparare il terreno affinché gli utenti accettino la musica creata dall’AI, tecnologia peraltro già celebrata da Daniel Ek e dai fondatori di Epidemic Sound.
Cosa possiamo fare noi?
Ed è qui che entriamo in gioco noi. Quanto ci interessa il rapporto con gli artisti, la scoperta non solo di nuova musica ma della storia di chi l’ha ideata, delle persone che stanno dietro alle canzoni? Qualche tempo fa Guccini si è espresso in maniera ineccepibile riguardo al lavoro intellettuale dietro certe canzoni, dopo che Jovanotti aveva messo sullo stesso piano “La locomotiva” e “Gloria” di Umberto Tozzi. Ignorare tutto ciò che c’è prima di una canzone ci rende dei semplici burattini in mano alle piattaforme di streaming, lasciandole sempre più libere di decidere cosa dobbiamo ascoltare. Chi ascoltiamo finisce per non importare più.
Le alternative al monopolio di Spotify esistono, da Bandcamp a piattaforme che si impegnano (o perlomeno ci provano) per una retribuzione più equa degli artisti, come Tidal o Deezer. Spotify non è certo da demonizzare in toto, ma dovremmo esigere da un player così importante chiarezza sulla provenienza dei brani, un trattamento equo degli artisti e più trasparenza nei criteri di inserimento nelle playlist.
Non tutti gli artisti stanno in silenzio
Il rapporto tra le piattaforme di streaming e i ricavi degli artisti è un tema già affrontato da diversi musicisti, come James Blake o Thom Yorke. I Milanosport lo hanno fatto non solo a parole. Calcolando di mettere in loop su una piattaforma streaming per 12 ore consecutive le tracce del loro album, avrebbero guadagnato circa 0,87 centesimi. Il valore medio di ogni singola riproduzione di un brano è infatti di 0,003 centesimi. I Milanosport hanno così deciso di suonarlo live, ininterrottamente, per 12 ore. Una provocazione contro l’iniquità della distribuzione di questi ricavi.
Questo articolo non vuole essere una condanna a Spotify o allo streaming, ma semplicemente accendere la luce su una situazione che, volenti o nolenti, ci coinvolge come pubblico. Come ascoltatori, acquisire consapevolezza è il primo passo per favorire gli aspetti più sani di un’industria enorme (e anche per un’esperienza più gratificante).
Conoscere artisti in modi diversi dai circuiti dello streaming è senz’altro più faticoso, ma ci concede controllo, libertà e cultura sui nostri ascolti. Esistono esempi virtuosi, come Fuori Salotto o Milano Cantautori, ma basterebbe semplicemente scegliere gli artisti e gli album che vogliamo ascoltare come sottofondo.
Una delle assunzioni più forti legati a questa pratica di Spotify è quella di “andare avanti finché il pubblico non se ne accorge“. Beh, ce ne siamo accorti: ora dovremmo cambiare qualcosina nelle nostre abitudini di ascolto.
Aggiornamento del 2 aprile 2025 – In seguito alla pubblicazione dell’articolo, l’ufficio stampa di Spotify ci ha contattato per ribadire la propria posizione sul tema:
“Spotify non crea e non ha mai creato artisti “finti” né li mette nelle proprie playlist. È un’accusa categoricamente falsa. Spotify paga royalties, audio e pubblicazione, per tutte le tracce sulla piattaforma e per tutto ciò che mette nelle proprie playlist. Spotify non possiede i diritti, non è un’etichetta, tutta la musica è concessa in licenza dai titolari dei diritti: Spotify paga questi ultimi, non se stessa.“