Ce ne siamo accorti tutti: gli artisti stanno facendo uscire canzoni – alcune hit, altre flop – con altri artisti, sempre gli stessi, come in una roulette russa musicale. Tutti – ma proprio tutti – sembrano aver cantato con Geolier, Achille Lauro, Fedez, Guè, Tony Effe, Emma, Sfera Ebbasta, e questi sono solo alcuni dei nomi che possiamo citare.
Una domanda sorge, dunque, spontanea: perché i feat sono sempre gli stessi? E ancora: siamo certi che questi siano mossi da esigenze artistiche e non di mercato?
Partiamo dalle basi. Con feat intendiamo una collaborazione musicale tra due o più artisti. Fin qui non c’è niente di male, se pensiamo che alcuni feat sono dei veri e propri capolavori: basti pensare a “Piccola anima” di Ermal Meta ed Elisa, “Pazza Musica” di Marco Mengoni ed Elodie, di recente uscita “Per due come noi” di Olly e Angelina Mango, e tanti altri. Possiamo considerare un feat riuscito quando, nel bene o nel male, rimane nella memoria collettiva – un esempio attuale può essere “Sesso e Samba” di Tony Effe (appunto) e Gaia. Ci sono, però, molti altri feat che sono finiti ben presto nel dimenticatoio e che non hanno riscosso il successo sperato, come “L’ULTIMA POESIA” di Geolier, Ultimo e Takagi & Ketra. Operazione musicale – e commerciale – non riuscita, oppure è il pubblico a non aver capito?
Tutte queste collaborazioni sono necessarie? Gli artisti non sono più in grado di comunicare autonomamente, senza aggregarsi a qualcun altro? Dove sono finite l’originalità, l’estro creativo, il rischio di qualcosa di nuovo, non già visto e rivisto fino alla nausea, magari che porta alla luce nuovi nomi?
Sembra che sempre meno artisti sentano il desiderio di esprimersi in maniera indipendente, contando solo sulle proprie forze e sui propri strumenti.
Bisognerebbe riflettere su quanto i featuring stiano arricchendo il panorama musicale o se, invece, stiano portando alla perdita di originalità. Il pubblico, in molti casi, sembra già essersi stancato di ascoltare sempre gli stessi nomi e chiede qualcosa di diverso.