Humanize è il nuovo anti-album di Appino, che dopo quasi 30 anni di musica ha deciso di andare oltre. Ha preso tutto ciò che conosce dell’umanità, si è reso conto che ne voleva di più, capirla di più, amarla e odiarla di più, e ha deciso di proporci una lezione di 72 minuti su noi stessi.
Il progetto è mastodontico, non è fatto solo di musica e canzoni e la prima cosa da dire di fronte a un lavoro del genere è solo una: chapeau.
La banalità dell’essere umano
Parto però da ciò che non mi piace di Humanize. Nel descrivere l’umanità, nel raccontarla nei suoi lati più crudi, c’è un rischio sempre dietro l’angolo: la banalità.
Humanize è la cosa più lontana da un disco banale, ma alcuni suoi tratti ne contengono forse un po’ troppa.
Alcuni dei comizi di umanità che introducono le canzoni trasudano un po’ troppi luoghi comuni, frasi un po’ buttate nella mischia che non arricchiscono il lavoro ma anzi lo appesantiscono: a tratti, queste contaminazioni di banalità si riversano parzialmente anche nei brani (tipo Rosso o nero degli Zen Circus, per dire).
Magari Appino voleva anche questo, di certo anche questa è umanità, ma forse nel processo dall’idea alla realizzazione qualcosina si è perso.
Paradossalmente, credo che l’unica introduzione che aumenta il valore del pezzo che segue e che ne semplifica la comprensione è quella che precede Enduro, il brano (a parer mio) meno entusiasmante dell’album. Non tanto per lo stile diverso da ciò a cui siamo abituati, quanto forse per la poca propensione di Appino a questo genere di comunicazione. Un atto di coraggio e indipendenza che va sicuramente riconosciuto e apprezzato, ma che ad oggi forse non sembra pienamente riuscito.
Anche il tentativo di comunicare con i visual trasmette forse più un effetto cringe che un vero arricchimento del significato dei brani (a parte quello dedicato a Carnevale che reputo stupendo).
Però.
Però il mio parere vale poco o nulla, e quando si parla di musica questi contorni non contano molto di più.
Quindi, fatte queste doverose premesse per onestà intellettuale, possiamo passare alla pura idolatria di un artista che adoro, che non vedo l’ora di rivedere dal vivo e che, per indipendenza stilistica e puro menefreghismo artistico, mette le palle in testa ai canoni dell’industria musicale.
Il primo punto fondamentale da sottolineare di Humanize è il percorso che l’ha fatto nascere: 8 anni di testi, musica, interviste e umanità che hanno aspettato il momento giusto per venire al mondo, senza forzature di etichette, tempistiche, industrie e marketing.
Un lavoro che nasce per pura esigenza comunicativa, non scritto per piacere ma per raccontare: che poi il lavoro riesca o meno, è secondario. Questo processo creativo qui è da celebrare, tramandare e ammirare.
E poi c’è Appino: quasi commuove vederlo in queste vesti conoscendo la sua storia. Dall’oppressione di una provincia che gli recideva le ali all’ambizione di raccontare l’umanità (come, in realtà, fa da molto più tempo di quanto lui creda). Tutto questo senza fuggire mai da quella provincia cronica (cit).
Dopo gli anti-singoli che ci hanno introdotto Humanize, così diversi e così poco incasellabili in generi ed influenze, non era chiaro cosa potevamo aspettarci dai brani.
Del nostro avvenire ci ricorda subito la nostra semplicità, la nostra piccolezza e un futuro che ci siamo aggrovigliati intorno fino a imprigionarci.
Quando mi guardi si affida poco alla sperimentazione, aggrappandosi alla profondità dei testi di Appino per arrivarci al cuore con il solo fioretto di voce, chitarra e poco altro. Un’essenzialità che Appino sa utilizzare da vero maestro, in questo caso per raccontare l’arida povertà della corsa alla ricchezza. Non bestemmio se, ascoltandolo qui, chiudo gli occhi e penso un po’ a De André.
Il mondo perfetto è un perfetto esempio di sperimentazione riuscita: l’elettronica mescolata al folk rock a cui Appino ci aveva abituato è un vero passo avanti, enorme e centrato al 100%. Qui in particolare il mezzo e il messaggio sono allineati alla perfezione, ma anche in Creatura l’elettronica non stona.
Sono pronto a scommettere che Età della pietra sarà il pezzo più apprezzato dai fan storici degli Zen Circus: rock duro e puro pieno di distorsioni per raccontare la brutalità del nostro quotidiano.
La chiusura con Ora ci riporta ad un presente che si insegue da sempre, per sempre. Cosa fare davanti ad un’eternità che si ripete all’infinito, dove noi siamo attori temporanei e fallaci? Abbracciamoci, vogliamoci bene, amiamoci, diciamoci tutto quello che ci fa vergognare. Umanizziamoci, finché siamo ancora i più bravi a saperlo fare.
In sintesi, dentro Humanize ci sono pezzi clamorosi che vale la pena sentire e risentire fino allo sfinimento.
I miei personali brani imperdibili ve li lascio qui:
Qui sotto invece trovate l’album completo, sia perché Appino vuole così e mi dà l’idea di essere un tipo un po’ permaloso, sia perché Humanize è un viaggio che merita di essere attraversato dall’inizio alla fine con la giusta intensità.