Un uomo di cuore, che sprigiona tranquillità e passione allo stesso tempo: stiamo parlando di Tatum Rush. L’artista italo-svizzero-americano ha arricchito da poco la sua già abbastanza nutrita discografia con il suo primissimo album in italiano, Villa Tatum, che ci ha lasciati tutti a bocca aperta. Proprio per questa ragione, Cromosomi ha pensato bene di scambiarci quattro chiacchiere. Un po’ per saperne di più sulla sua ultima fatica discografica, ma un po’ anche per scoprire un artista poliedrico come pochi. Bando alle ciance, a voi l’intervista.
Ciao Tatum, come va?
Tutto bene, tu?
Tutto a posto. Ho ascoltato Villa Tatum e, intanto, volevo farti i miei complimenti. E’ un bellissimo lavoro, secondo me.
Grazie mille.
Incominciando con le domande, hai debuttato da pochissimo con il tuo primo album in italiano, Villa Tatum. Come ti senti?
Bene, bene, bene. E’ strano arrivare alla fine di un lavoro lungo, è gratificante vedere il risultato finale materializzato, il vinile (che tra l’altro non ho ancora visto, ce l’hanno in studio i ragazzi di Undamento, per ora lo immagino solo). Sì, è bello. Finisce anche un po’ un capitolo, quindi, per uno spirito come me, che è sempre al lavoro a qualcosa, significa anche l’inizio del lavoro prossimo. Chiaramente è gratificante, un po’ come festeggiare un lavoro arrivato a termine. Però sono già con la testa verso what’s next.
Partendo dal titolo Villa Tatum, sembra quasi che tu abbia voluto usare una sorta di filo rosso per tutte le tracce, una sorta di concept.
Guarda, il filo rosso era presente già prima del titolo, probabilmente. Diciamo che il filo rosso è legato a una certa estetica e tematiche che trovo divertenti, per le quali ho un’urgenza di mettere in musica. Sono legate a un’idea di un’estetica che parte dal kitsch, che poi diventa altro, qualcosa di più neoclassico, forse, di più eterno. Questi elementi, che vengono quasi dal mondo decorativo dell’estetica, mi hanno ricordato questa immagine di una villa, di un museo, di qualcosa di molto sontuoso e, allo stesso tempo, molto pulito, marmoreo. Chiaramente è tutto un gioco di riflessi, di finzione, di doppio significato. In questa villa non è tutto come sembra.
Entrando nelle stanze di questa villa, ci sono tanti generi che si mescolano. C’è del pop, c’è dell’elettronica, c’è della trap e via così. E’ il tuo stile a essere camaleontico oppure ti sei aperto alla sperimentazione?
L’album è una ricerca musicale sui generi, sull’estetica musicale, che nasce anche da un incontro mio e di Ceri, da un lato. Ci sono alcune cose, per esempio questo gusto più trap che esce da Bonjour, che emerge dall’incontro mio e di Ceri. Era una proposta sua, di spingerlo in quella direzione. Ho accettato pienamente e ci ho giocato anche io con questa cosa. Non vorrei limitarmi a un genere di base, perché forse ho una pratica estetica eclettica e quindi questo si traduce in musica. Diciamo che sono tutti generi che mi interessano, che forse non mi appartengono al 100%, soprattutto la trap, ma nemmeno il mondo comunitario della techno, però sono generi che conosco, che ho visto da vicino (ho vissuto a Berlino, ho fatto un po’ di esperienze in quel campo lì). Io li esploro e li snaturo, li porto in spazi in cui si può giocare con i generi, con la materia, in modo libero.
Proprio parlando di Ceri, come nasce questo matrimonio artistico fra di voi?
Con Ceri è cominciata con io che gli ho scritto su Facebook, perché avevo visto che avevamo un amico in comune, Davide Panizza, PopX, di cui ero super fan (poi siamo diventati anche amici). Ceri pensava che io fossi di Trento, amico di Davide. Non era il caso, però con questa specie di inganno involontario ci siamo trovati a Milano e abbiamo deciso di lavorare insieme. Da lì è nata un’amicizia.
Come nasce invece Villa Tatum?
Nasce sicuramente con l’accorgersi che c’era un filo rosso, che ha cominciato ad apparire con Too Late. C’è stato un momento dove avevo un po’ un blocco, un periodo di bassi, dove mi sembrava di riscrivere le stese canzoni. Ceri mi spingeva, mi diceva:”No, ti stai ripetendo”. A un certo punto, mi sono messo a scrivere in modo diverso. Ho trovato una chiave: l’idea di una scrittura quasi self-help, molto positiva, abbastanza ironica. Da lì si è sbloccata una cosa e mi è venuta una lunga serie di pezzi, che poi non sono nemmeno tutti finiti nell’album. Alcuni li abbiamo scartati. Abbiamo voluto cristallizzare un album che sia perfetto, dove ogni brano è un pezzone, in un certo senso, dove non ci sono da pezzi che fanno da ponte fra l’uno e l’altro. Volevamo che ognuno fosse al massimo delle nostre potenzialità. Volevamo fare proprio la lucidatura di un cristallo.
C’è un pezzo dell’album a cui sei più legato?
Proprio per via di questo lungo processo di selezione e di scarto dei pezzi, alla fine, quelli che sono finiti nell’album sono tutti brani che hanno passato vari test. Quindi, in verità, sono legato a tutti. Va a fasi, quando magari sei stato troppo su uno, vai su un altro. Ecco, forse Idra è uno dei pezzi più vecchi del disco, uno di quelli che sono stati scritti più tempo fa, ma che ha cambiato totalmente veste. Ma anche Lulu: è diventato un pezzo così strano, uno di quelli a cui sono più legato in questo momento, che trovo più interessante, sperimentale. Anche nei live in cui l’ho fatto, è stato il culmine, diventa una performance: è uno dei pezzi più importanti.
Come descriveresti Villa Tatum usando solamente tre parole?
Direi cristallo, perché si è lucidato man mano. Forse aeroporto, perché questa cosa del luogo che non è luogo mi piace. Poi, direi che c’è questa idea, anche se trasmutata, del lusso.
Sei soddisfatto del lavoro che hai fatto o cambieresti qualcosa?
No, non cambierei nulla, no, no. Sono soddisfatto. Però, insomma, non è finita lì, bisogna continuare.
Villa Tatum è sì il tuo primo album in italiano, ma hai comunque una produzione importante in inglese alle spalle. Se dovessi tracciare un itinerario tra Guru Child a Villa Tatum, come sarebbe?
Diciamo che è cominciato anche prima l’itinerario: parte dal periodo jazz, poi passa a quello songsinger-songwriter all’americana, poi a Guru Child. E’ una specie di sperimentazione della scrittura pop che parte da qualcosa di più sporco, quasi rock, per poi sfociare in un lavoro di produzione super levigato, con Ceri, per poi sbocciare in una scrittura più cosciente, anche perché l’italiano ti porta a scrivere in un modo più attento. Quindi, alla fine, è un’evoluzione abbastanza classica, maturazione di quello che vuol dire scrivere canzoni. Iniziando dall’esplorazione dei generi, fino ad arrivare ad appropriarsi del linguaggio.
Hai una solida base musicale inglese, ma qual è la lingua in cui ti trovi meglio a esprimerti, musicalmente parlando?
Adesso sicuramente l’italiano, perché è da un po’ che ci lavoro e scrivo solo in italiano ora. E’ stato un po’ una full immersion, dal momento in cui ho deciso di usare l’italiano. E’ più facile forse scrivere in inglese: in italiano è più difficile ma è più gratificante. Sono trilingue, quindi mi trovo anche bene in altre lingue. Per adesso, trovo che l’italiano sia la lingua più interessante con cui scrivere, perché è una sfida in più far suonare bene alcune cose.
Sei fortemente multiculturale. Come pensi che ciò abbia influenzato il tuo essere artista?
Ho sentito dei feedback sul disco che dicono sembri poco italiano. Magari è possibile che sia per la mia anima più americana, per la mia cultura francese. Inoltre, sono svizzero. Sto cominciando ad avvicinarmi sempre di più alla cultura brasiliana, quindi anche quello fa sì che, alla fine, uno che ascolta il disco capisce che non sono cresciuto a Lucio Dalla e Calcutta. Ci sono un po’ di referenze diverse, che poi si svelano con la scrittura.
Ho visto che hai avuto esperienze live molto interessanti. Come affronti questa dimensione della musica?
Guarda, io ho studiato Belle Arti, in particolare Performance, quindi non pittura o scultura, ma qualcosa nell’azione, di effimero, che si può avvicinare magari al teatro contemporaneo. Quindi l’ho sempre vissuta sotto quella lente ipercosciente di quello che è lo spettacolo, il palco. Se tu fai qualcosa su un palco, porta con sé più significati. Quindi, questa coscienza, alla fine, mi ha reso impossibile fare un concerto pensando di fare semplicemente un concerto; c’è sempre la dimensione dello spettacolo. Cosa vuol dire fare spettacolo? Sono sempre ricorso a degli elementi che disturbano lo spettacolo, come ballerini particolari e strani, che smontino questa cosa.
Cosa direbbe il Tatum Rush di oggi al Giordano che si approccia per la prima volta al mondo della musica? E cosa direbbe Giordano al Tatum Rush di oggi?
Direi al Tatum che iniziava a fare jazz e che pensava che il jazz fosse il genere di musica più complesso di tutti, di stare pronto a vedere che non lo è affatto, che tutto è complesso e che sarebbe stata una strada piena di sorprese e di ricredute. Invece, il Tatum che comincia, dovesse incontrarmi, penso che sarebbe abbastanza shockato e mi chiederebbe:”Cos’è ‘sta roba?!“, ma è anche questo è il bello.