Con Musica Triste, in uscita oggi, 5 dicembre, Emis Killa fa una scelta chiara: niente compromessi, niente singoli ruffiani piazzati in mezzo al disco solo per le playlist. È un lavoro che si appoggia su quello che l’ha reso uno dei nomi cardine del rap italiano: strofe lunghe, rime fitte, beats senza fronzoli e un immaginario che resta sporco, notturno, riconoscibilissimo.
Più che un “nuovo progetto”, Musica Triste suona come un reset: Emis sembra essersi chiesto cosa lo rappresenti davvero, anche a costo di perdere appeal mainstream. La risposta è un album che torna alla quintessenza del genere, ma con una penna segnata da quindici anni di carriera, notti in studio, demoni personali e successi ormai metabolizzati. È il disco di un trentacinquenne che non ha più bisogno di dimostrare di “saper spaccare”, ma sceglie di farlo comunque.
Dall’istinto alla scelta: Musica Triste è un album contro il pilota automatico
L’identità di Musica Triste non nasce lineare: si sente che il disco ha cambiato pelle più volte, come se ogni brano fosse la fotografia di una fase diversa del processo. La sensazione è che, a un certo punto, Emis abbia spento il pilota automatico e abbia iniziato a farsi guidare da ciò che gli batteva addosso davvero, senza inseguire trend a tutti i costi.
Il risultato è un lavoro a blocchi emotivi: ci sono i pezzi stradaiola, i club banger, le love song tossiche, i momenti più introspettivi e quelli da “vecchia guardia” con punchline al veleno. Non c’è un concept rigido, ma un filo rosso sì: la capacità di tenere insieme il ragazzo di “Keta Music” e l’uomo che oggi raccoglie i frutti, spesso con meno gusto di quanto immaginava.
“Luna Storta” e la dichiarazione di guerra
L’apertura con “Luna Storta” è un manifesto: beat essenziale, flow serrato, zero ritornelli ruffiani. È il pezzo che ti dice subito che Musica Triste non è un album pensato per scorrere in sottofondo. È un Emis diretto, sfrontato, che infila riferimenti pop, strada e cinismo con quella ironia amara che da anni è il suo marchio.
In un’epoca in cui la generazione TikTok cerca lo “skippabile” dopo dieci secondi, lui parte con uno sfogo vecchia scuola: niente format, niente confort zone, solo barre. È il momento che ti ricorda perché molti ragazzi l’hanno scelto come voce di riferimento quando ancora si andava in giro con gli mp3 nel Nokia e non con le playlist editoriali.
Club, corpi e desideri: “Staila”, “Mama”, “Calda”
La parte più carnale del disco si accende con “Staila” feat. Flaco G, brano da club che riprende quell’attitudine alla schiettezza sessuale che ha sempre fatto parte del suo immaginario. Il rapporto è fisico, senza sentimenti dichiarati, raccontato con linguaggio esplicito ma consapevole, volutamente crudo. È la fotografia di una generazione che spesso parla d’amore, ma vive di situazioni, di “stiamo qui finché dura e poi si vede”.
Con “Mama” il tono cambia: resta il club, ma la figura femminile si fa più complessa, affascinante e distruttiva allo stesso tempo. Emis parla di “romanticismo di quartiere”: gelosia, litigi in strada, video che finiscono sui telefoni degli altri, ma anche una lealtà di fondo che resiste alle scenate. È quel tipo di relazione borderline che molti ragazzi riconoscono: tossica, ma impossibile da lasciare davvero.
In “Calda” con Tony Effe il clima resta sensuale, ma si fa quasi cinematografico: due personaggi che vivono tra club, paranoie, pillole e desiderio, incastrati in un loop in cui ci si fa male ma ci si continua a cercare. È la parte del disco che racconta il nostro tempo senza moralismi: nightlife, ansia, psicofarmaci e relazioni a metà che sembrano più droghe che storie.
L’amore ferito: “Ambra” e “Sogni sporchi”
“Ambra” con Tedua è la sorpresa emotiva e una delle vette del disco. L’idea dell’ambra come qualcosa che trattiene nel tempo – luce, memorie, persino ferite – si sposa con una scrittura che mescola poesia e durezza. Qui Emis è vulnerabile senza diventare patetico: parla di sguardi che scaldano una stanza, di dolori che restano incastrati dentro, di amori che ti salvano e ti condannano insieme. Tedua aggiunge quell’intensità sospesa, quasi metafisica, che rende il pezzo ancora più magnetico.
“Sogni sporchi” richiama invece il filone delle sue love song di periferia: l’amore vissuto tra palazzi, stazioni, whisky e bug da risolvere più in testa che nella relazione. C’è il senso di colpa, la nostalgia, il rimpianto per ciò che si è rovinato da soli. È il tipo di pezzo che ascolti alle tre di notte e ti fa venire voglia di scrivere alla persona che non senti più da anni, anche se sai benissimo che non dovresti.
Fratellanza vera: “Phrate” e “Una siga fa”
“Phrate”, prodotto da Don Joe è un inno all’amicizia che non suona mai come una cartolina motivazionale. È pieno di nomi, episodi, ricordi precisi: console, centri sociali, Magazzini Generali, notti in chat, problemi di salute, gente che non c’è più o che lotta ancora. È una lettera aperta “ai miei fratelli per la vita”, quelli che restano anche quando il successo va e viene.
“Una siga fa” con Papa V e Nerissima Serpe spiazza: ti aspetti la bangerata da club e invece arriva un brano nostalgico, amaro, che parla di adolescenza, prime risse, prime canne, viaggi in regionale, padri assenti, incidenti che cambiano le strade per sempre. È un pezzo “da generazione”, perfetto per chi oggi ha venti-trent’anni e ogni tanto si chiede dove siano finiti tutti quelli che c’erano “una siga fa”, quando non sapevi ancora chi saresti diventato ma sentivi che, in qualche modo, ce l’avresti fatta.
La canzone che dà il titolo al disco è anche quella più intima. “Musica Triste” è un dialogo feroce con se stesso: Emis parla del ragazzo che era, pieno di fame e sogni, e dell’uomo che oggi raccoglie i frutti ma sente che qualcosa, nel processo, ha perso sapore. C’è il disgusto per l’ipocrisia dell’ambiente, la stanchezza per un circo che ti divora, il peso della solitudine nonostante i numeri, le copertine, i sold out. É un brano che racconta benissimo la sensazione di tanti della nostra generazione: ci avevano detto che, una volta realizzati gli obiettivi, saremmo stati sereni; invece ci ritroviamo con più ansia, più farmaci sul comodino e meno certezze. Quando lui canta di blister, apocalisse nel cuore e musica che resta triste nonostante tutto, non sta solo facendo “storytelling”: sta mettendo a nudo un burnout emotivo che molti riconoscono, anche fuori dal rap.
I feat come legami tra generazioni: da Salmo a Capo Plaza
La tracklist è popolata da molti nomi: Salmo, Tedua, Tony Effe, Capo Plaza, Baby Gang, giovani come Papa V, Nerissima Serpe, Ele A, Promessa, Flaco G. Non sono featuring messi lì per moda: funzionano come un ponte tra vecchia e nuova guardia.
“Robb Stark” con Salmo è un ritorno al rap più cattivo, tecnico, strapieno di punchline e immagini brutali. È un regalo agli appassionati del genere, a chi vuole sentirli ancora rappare “a muso duro” senza compromessi, tra gossip disprezzato e strada che non ti molla mai davvero.
In “Fanculo” con Baby Gang torna un’energia gangsta, viscerale, che parla a chi viene dai quartieri e non ha nessuna intenzione di addolcire il racconto. “Egoista” con Ele A e Promessa, invece, mischia scratch, malinconia e riflessione sul successo, sulla depressione, sul sentirsi svuotati anche quando il portafoglio ride. “Serpe” con Capo Plaza chiude il capitolo sentimentale con una trap love song amara, dove la relazione tossica è raccontata come un’arma puntata alla testa: calore a letto, gelo dentro.
“Mare di notte”: lo sguardo oltre il personaggio
La vera chiusura è “Mare di notte”. Nato quasi per caso, diventa il momento in cui Emis allarga ancora di più lo sguardo: parla di giustizia che ti sveglia di notte, di collane che a volte sembrano catene, del fatto che puoi riempire conti in banca senza mai colmare il vuoto che ti porti dentro. È uno di quei brani che senti più da adulto che da ragazzino: parla della paura di ammalarsi, di invecchiare, di dimenticare chi eri, ma anche di un certo strano sollievo nel pensiero della fine quando le giornate no diventano troppe.
È qui che Musica Triste smette definitivamente di essere solo un album rap e diventa un racconto generazionale: di chi è cresciuto tra freestyle, mixtape masterizzati, poi social, poi streaming, e oggi si trova a fare i conti con il tempo che passa e con la voglia di restare vero in un mondo che ti chiede continuamente di aggiornarti.
Musica Triste è il disco in cui Emis Killa taglia i fronzoli, guarda in faccia i demoni e ci riguarda.
Intervista a Emis Killa
Dopo aver attraversato Musica Triste traccia per traccia, avevamo troppe domande per lasciarle solo ai brani. Abbiamo incontrato Emis Killa per farci raccontare come nasce davvero questo ritorno alla quintessenza del rap, cosa significa oggi fare “musica triste” in un’epoca che vuole solo distrazioni veloci e quanto, dietro le barre, resti ancora il ragazzo con la fame negli occhi.
Il disco è un tributo alle donne, anche nella copertina. Cosa senti di aver imparato da loro?
“Se non ci fossero le donne saremmo tutti morti. Hanno una predisposizione innata all’accudimento, credo sia biologico.
Detto questo, non amo la distinzione “cosa ho imparato dalle donne” o “dagli uomini”. Ho imparato dalle persone. Posso dire cosa ho imparato dalle mie donne: da mia madre, da mia figlia. A volte mi dice “papà, non fumare che fa male”. Sembra una sciocchezza, ma servirebbe qualcuno che te lo ricorda ogni giorno.
Non si può generalizzare su temi così importanti. Sheherazade è molto più specifica e colta su questi argomenti. Io faccio rap.”
La scelta della sonorità di “Paradise” nasce da un motivo estetico o anche nostalgico?
“Sinceramente, il beat l’ha consigliato Chef P. Tra i tanti che abbiamo ascoltato era l’unico su cui eravamo tutti d’accordo.
La nostalgia è venuta da sé. È stata una scelta genuina.
Nerissima e Papa ci tenevano a fare una canzone con un senso, non il solito banger da club. Lì ho capito che aveva senso seguire quella linea.”
Ti è stato spontaneo o ragionato quel ritorno di vibe?
“Totalmente spontaneo. Alcune sonorità richiamano qualcosa da dentro, anche contro la tua volontà. Secondo me è uscito così proprio perché a tutti richiamava qualcosa. Niente è stato forzato.”
Quando hai capito che dovevi tornare alla quintessenza del rap?
“ Il disco era nato in un’altra maniera, perché dovevo andare a Sanremo. Avrei impostato l’anno in un altro modo.
Quando il festival è saltato, mi son detto: se devo parlare ai miei fan, faccio quello che mi viene più semplice e naturale. Io ho sempre fatto rap. Scrivere “canzoni” è diverso, più stressante. Non prendo quella parte del lavoro alla leggera. Fare rap invece mi viene più istintivo. Alla fine molti pezzi sono stati chiusi negli ultimi mesi. Il disco si è chiuso più in fretta perché ho fatto rap.”
Quest’anno hai pensato comunque di tornare a Sanremo?
“No. È uscito dai miei programmi. Sanremo è tosto, c’è un’ansia generale che vivono tutti. Io, al contrario di quanto possa sembrare, ho anch’io le mie insicurezze. L’orchestra, le prove, le regole su come devi cantare… non era il momento giusto.
Se un giorno ci torno, lo farò con un’altra testa.”
Per Milano: prossimo step live. Ci porterai a San Siro?
“No. Sarebbe il passo più lungo della gamba. Lo vedo anche con artisti molto forti: San Siro è enorme e richiede tanto. Preferirei una cosa diversa, anche più piccola ma stimolante. Come il “No phone Party“ senza telefoni. Un format particolare. Non abbiamo ancora parlato della dimensione live del nuovo disco.”
Nel disco torni spesso sul tema del tempo che passa. Come si concilia con la scelta di inserire artisti emergenti molto giovani?
“Per rimanere attuali serve contaminarsi con chi è attuale. Oggi mi ispirano più i giovani che quelli venuti prima di me. Hanno ascolti diversi, approcci diversi. Lavorare con loro ti apre la mente. E fa bene anche all’ego: essere riconosciuto da chi non è cresciuto ascoltandoti ha un valore.”
Com’è stato tornare a collaborare con Tedua?
“Il brano inizialmente era un altro, “Egoista”, che poi ho chiuso con Elea e Promessa. Con Tedua la cosa è slittata e il pezzo l’abbiamo chiuso alla fine. Il ritornello era stato proposto da Drillion, che ci ha aiutato a impostare la struttura. Abbiamo scritto insieme in studio, abbiamo fatto mille take. È stato un bel lavoro, più valorizzato rispetto alla nostra collaborazione precedente.”
Quale canzone pensi verrà capita meno dal pubblico?
“Forse “Egoista”. È un brano raffinato, non semplice. Ha un suono classico e un approccio boombap. Non è un banger, è notturno. Magari avrà meno riscontro, non perché sia peggio, ma perché richiede un ascolto più attento.”
Se domani ti dessero 30 milioni di euro, cambierebbe il tuo rapporto con la musica?
“Dipende come li ottieni. Se li vinci resterai con la stessa fame. Se li fai con la musica, significa che hai raggiunto certi traguardi. Forse mi rilasserei. Farei il rap che voglio io, senza pensare a TV o featuring. Cambia anche con l’età: ti chiedi perché continui a correre. A volte una settimana coi figli vale più di un evento.”
Hai mai pensato di creare un album solo pianoforte e voce?
“Sì. La musica classica la ascolto tanto: mio padre era pianista. Chopin è il mio artista preferito. Il problema è che non so quanto sarebbe recepito. Per me sarebbe una figata, ma potrebbe risultare pesante a molti. Se un giorno avrò abbastanza libertà, potrei farlo.”
Il titolo Musica Triste: è un manifesto o un momento personale?
“Mi piace la musica triste. Mi smuove qualcosa. Le mie canzoni migliori sono tristi. E anche la musica di oggi è triste: nel modo in cui viene fatta, usata, esaltata e svalutata.”
C’è un modo per educare a un ascolto più consapevole?
“No. Il progresso non lo fermi. È come dire a un ragazzo di mettere il casco. La musica fa parte del mondo e il mondo è veloce. Non puoi cambiare le persone. Devi capire come non farti travolgere.”
Perché oggi questa scelta di raccontarti in maniera così introspettiva?
“Nelle interviste e nella musica ho sempre raccontato cose intime, ma non con vulnerabilità. Sembrava sempre che ne uscissi indenne. In realtà ci sono fragilità, dubbi, insicurezze. Mostrare quella parte è un modo per essere più vero con chi mi segue.”
Come è cambiato questo rapporto con la vulnerabilità nel tempo?
“Cambia il contesto, non la sensazione. Quando sei a terra, sei a terra a 15 come a 50. La differenza è che ora so che ne esci. Prima no. Un uomo non è forte se non piange: è forte se affronta le cose.”
Con l’uscita di questo disco ti senti diverso rispetto ai precedenti?
“Sì, più sereno. Non mi interessa più uscire primo in classifica. Mi interessa piacere a me e al mio pubblico. Oggi tutti dicono tutto di tutto. È un pattern che si ripete. Non mi cambia più.”
Cosa ti aspetti che arrivi al pubblico?
“Che pensino: “Emis Killa, dopo tanti anni, è ancora forte”. Io ho iniziato perché volevo essere bravo, non per il resto.”










