In Take 6 Shiva entra in scena come un profeta oscuro, un messaggero borderline che parla agli dei ma resta inchiodato “quaggiù”, in un’umanità corrosa da ferite, paranoia e orgoglio. È uno di quei brani in cui il rapper di Milano Est si mette al centro di un pantheon tutto suo, dove sacro e violento convivono senza mai chiedere scusa. E infatti, qui, il perdono non è contemplato: c’è solo la richiesta di “uno stop”, una tregua da una vita che corre troppo, che morde troppo.
L’intro è quasi una liturgia industrial: quel “sei, sei, sei” ripetuto sembra più un countdown che un coro. Shiva lo usa per costruire un’atmosfera apocalittica, come se stesse varcando una soglia, quella tra il mondo degli uomini e quello delle divinità a cui dice di parlare. Il contrasto è tutto lì: da una parte il pane spezzato coi suoi, il rituale della fratellanza; dall’altra il rifiuto del perdono, segno di un orgoglio diventato corazza.
Un profeta che sanguina
Nella prima strofa, Shiva passa dall’epico al crudo con la naturalezza di chi sta riscrivendo un proprio Testamento. Si autoproclama “ultimo profeta come Giona”, ma lo fa mescolando riferimenti biblici e cultura street, come se la sua vita fosse un vangelo “con un flow della Madonna”: un paradosso che regge solo quando arriva da chi ha fatto del dualismo il proprio marchio.
Il tratto più potente di questi versi è la consapevolezza ferita. Shiva racconta di tradimenti che l’hanno “eletto”, come se il dolore fosse stato il vero rito d’iniziazione. Le weapon che “arriveranno presto” laddove non arriva il verbo sono una traduzione brutale del suo immaginario. E se la parola non basta, c’è sempre il metallo. È un mondo dove la violenza “dona”, quasi fosse un accessorio estetico, una reazione spontanea all’incapacità di gestire la rabbia e la noia. Ed è in quel verso “non so vivere la noia” che Shiva si umanizza del tutto: non è solo un guerriero, è qualcuno che teme il vuoto, e per riempirlo si rifugia in eccessi.
Il ritmo della strofa è una ferita aperta: cento ferite, cento vite, tutte corte. In mezzo, punchline che suonano come morsi, la Glock con “un nuovo corpo” e la figura del corvo, il nero che veste come segno identitario e predatorio. Poi c’è quella frase che potrebbe reggere l’intero brano: “Sanno che sono il prescelto da quando sono risorto”. Non è arroganza: è un autoritratto mitologico, un modo di dire che ogni caduta ha avuto il suo ritorno.
La bibbia di un figlio della zona
Il ritornello è un rosario secco: “Voci gridano ‘sei’”, quasi a ribadire che il destino, per Shiva, è un imperativo. Eppure lui non chiede assoluzioni: chiede solo una pausa. Nel caos della zona, quella che evoca a ogni barra, è già una preghiera.
La seconda strofa è la più tagliente, quella dove l’immaginario gangster incontra il soprannaturale. Shiva dichiara di non avere più nemici vivi, una punchline che funziona come dichiarazione di potere e monito insieme. La zona, ancora una volta, è un’estensione della sua identità. È un luogo in cui i suoi “ti tolgono i vestiti… come Francesco d’Assisi” un’immagine fulminea, quasi comica nel suo cinismo.
E poi arriva l’immaginario pop: Shiva come Obi-Wan Kenobi, cavaliere dell’oscurità, un Jedi che però ha scelto l’altra parte della Forza. È qui che il rapper gioca meglio: la cultura biblica e quella cinematografica diventano i due pilastri di un’identità narrativa che solo lui, nel panorama italiano, usa con questa densità.
Le linee più taglienti della strofa, però, sono quelle in cui traspare la sensazione di essere ostacolato: “mi accusano soltanto per fermare il mio talento a tutti i costi”. E la risposta è un’altra citazione biblica, Matteo 5:14, “Gli imperi messi sopra una montagna non posson restar nascosti”. Shiva lo dice per proclamarsi luce, inevitabile, visibile. Un destino che non si può insabbiare.
Dal caos alla divinità: l’ascesa narrativa di Shiva in Take 6
L’ultimo ritornello è più fatale dei precedenti, come se la voce che grida “sei” fosse ormai diventata un comando divino. L’outro riprende l’invadenza dell’intro, chiudendo il cerchio. Take 6 è un rito che comincia e finisce nello stesso punto, come se Shiva non avesse davvero chiesto uno stop ma avesse semplicemente documentato un passaggio nel suo personalissimo libro sacro.
Se “Take 5“era la cronaca asciutta di un’ascesa raccontata dal basso, quasi un inventario di cicatrici accumulate lungo la strada. Take 6 è la sua evoluzione più oscura, più mitologica e decisamente più spavalda. Nel quinto capitolo Shiva mostrava ancora la tensione di chi sta costruendo il proprio nome, oscillando tra paranoia e determinazione, con un linguaggio più terreno e diretto. In Take 6, invece, il rapper sembra aver superato quella fase. Ora non ha più bisogno di dimostrare qualcosa, perché ora parla come un prescelto, come qualcuno che ha già superato la morte e il tradimento e torna con un’aura quasi ultraterrena. Se il precedente brano raccontava il peso della strada, questo ne racconta la glorificazione; se “Take 5” era un documento, Take 6 è un rituale. Qui Shiva non descrive più ciò che vive, ma ciò che incarna. È un profeta armato che riscrive la sua stessa leggenda, portando l’immaginario della saga a un livello più alto, più simbolico e più inquietante.
In Take 6 Shiva aggiorna il suo mito personale, mischiando fede, violenza, misticismo urbano e cultura pop. È un pezzo totalmente suo: cupo, visionario, estremo, ma anche costruito con intelligenza narrativa. Non vuole offrirsi come modello; preferisce mostrarsi come sintomo. Come un profeta che arriva tardi alla propria redenzione e che, forse, neppure la vuole davvero. Ed è proprio in questo paradosso che il pezzo vive: nella sacralità di chi sa di non essere santo.









