I Massive Attack e la maturità: una lezione di sociologia a Milano

da | Giu 19, 2025 | #Cromosomiintour

Una lezione a cui non eravamo pronti.

Più che un concerto, i Massive Attack a Milano hanno compiuto una sorta di operazione chirurgica nell’inconscio collettivo. Il loro talento innato nel riuscire a smontare la realtà non si è affievolito nel tempo: i bassi spaccano il petto e i visual non lasciano scampo alla distrazione. Nei giorni della maturità, il pubblico si è trovato davanti ad un esame di coscienza.

Del Naja e Daddy G non hanno mai avuto una gran voglia di intrattenere. Non c’è nostalgia, non c’è celebrazione. C’è solo un presente che fa male e un gruppo di artisti capace di sbattercelo addosso. I due di Bristol — fondatori di un genere, il trip hop, perché ciò che già esisteva non era sufficiente per definirli — sembrano più interessati a scuotere coscienze che a far muovere i piedi. Eppure il corpo reagisce. I beat ti prendono alle viscere, la voce di Horace Andy ti strappa l’anima, quella di Elizabeth Fraser ti ferma il cuore.

Si parte con un loop sarcastico: “In My Mind” di Gigi D’Agostino, che affiancata a video a tema Neuralink assume tutt’altro sapore. Poi l’impatto: “Risingson”, “Black Milk”, “Angel”, “Inertia Creeps”, “Girl I Love You”. Tutto crudo, tutto pesante. Niente concessioni al pop, nessun ammiccamento. Mancano pezzi storici come “Karmacoma”, ma il vuoto è riempito da un racconto visivo da brividi: bambini sotto le bombe, leader politici ridicolizzati, i dati spietati degli aiuti militari a Israele, la bandiera della Palestina che esplode dietro il palco. Non è solo musica: è un atto politico.

Lo show dura circa 90 minuti e rinuncia a quella porcheria pop che è il bis; ogni brano è un proiettile. Quell’estetica fatta di nero, di tensione e di potenza non è facilmente gestibile per molto più tempo. Niente orpelli, nessuna pacca sulla spalla. I Massive Attack ti parlano, ma non ti coccolano. Ti mostrano il mondo per quello che è: brutale, contraddittorio, pericoloso.

“Teardrop” arriva tardi, quando il pubblico è già emotivamente a pezzi. La Fraser è un’apparizione: fragile, ultraterrena, perfetta. Quando canta, il tempo si spezza e il palco si svuota: resta solo la voce. Una preghiera laica nel mezzo del caos.

Robert “3D” Del Naja — artista, attivista, ex writer, forse Banksy, forse no — non si dilunga. Dice solo una cosa, in italiano: «È bello essere qui… e anche essere tifoso del Napoli, non ci credo». Un sorriso, un respiro, poi di nuovo buio.

Loro non fanno album da anni, ma chi se ne frega. Ogni loro concerto è un manifesto e la musica è ancora viva e affilata. I Massive Attack ci hanno ricordato una volta in più che l’arte non è solo intrattenimento. È un’arma.

Chi è andato a vedere uno show, si è trovato dentro una lezione scomoda, urgente e necessaria. I Massive Attack non chiedono il tuo consenso; ti mettono davanti allo specchio e poi lasciano che tu decida se reggere lo sguardo.

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