L’arte di Brunori Sas è sempre stata un ponte tra il quotidiano e l’universale, una poesia capace di trasformare le emozioni più intime in racconti collettivi. Ogni sua canzone è un frammento di vita, un’istantanea che cattura il tempo che scorre e il cuore che cambia.
Dopo aver calcato per la prima volta il palco dell’Ariston martedì sera, Brunori Sas è ufficialmente entrato nell’universo di Sanremo 2025, segnando un debutto atteso e carico di emozione. Con il brano L’Albero delle Noci, il cantautore ha portato sul palco un pezzo che non solo racchiude il senso del suo percorso artistico, ma dà anche il titolo al suo nuovo album, uscito oggi, 14 febbraio, durante il Festival.
Sono trascorsi cinque anni dal successo di Cip!, e Brunori Sas torna con un nuovo album profondamente radicato nei cambiamenti personali e collettivi di questi ultimi tempi. L’Albero delle Noci, prodotto da Riccardo Sinigallia, è un lavoro intimo, spontaneo e introspettivo, nato in una piccola azienda agricola calabrese che Dario ha avviato con alcuni amici durante il lockdown.
Le dieci canzoni dell’album, tra cui i singoli già editi La Ghigliottina e Il Morso di Tyson, esplorano con sensibilità ed emozione le complessità della vita di tutti i giorni, fondendo esperienze intime e riflessioni universali.
Paura e amore: Brunori racconta l’essere genitore
Brunori Sas ha sempre avuto il talento di trasformare il quotidiano in poesia, e con L’albero delle noci, suo esordio tra i Big di Sanremo 2025, lo ha fatto ancora una volta in modo toccante. Il brano è una riflessione intima sulle gioie e le paure dell’essere genitori, un’esperienza che travolge, ridefinisce e, nel caso di Dario Brunori, stravolge le proporzioni del cuore.
Fin dal primo verso, Brunori utilizza l’immagine de L’albero delle noci per descrivere il rapido scorrere del tempo e il cambiamento inarrestabile della vita:
“Sono cresciute veloci le foglie sull’albero delle noci”
Un’apertura che ci spiega la velocità con cui la paternità e poi la vita stessa, trasforma tutto, lasciando poco spazio alla razionalizzazione. Ci si muove in questo flusso come un “canguro fra il passato e il futuro”, un continuo oscillare tra ciò che si era e ciò che si sta diventando.
“Scrivo canzoni d’amore alla ricerca di un porto sicuro”
La musica è un rifugio in un mondo in perenne cambiamento. Uno dei punti più toccanti del brano è il timore di non riuscire a sostenere tutto l’amore che la genitorialità porta con sé:
“Che tutto questo amore io non lo posso sostenere
Perché conosco benissimo le dimensioni del mio cuore”
Brunori, da sempre maestro nel raccontare le fragilità umane, qui svela il lato più vulnerabile dell’amore paterno: il terrore di non essere all’altezza, di non avere abbastanza spazio dentro di sé per contenere un affetto così travolgente. Ed è sempre qui che entra in gioco uno dei temi centrali della canzone: la paura.
“Vorrei cambiare la voce
Vorrei cantare senza parole
Senza mentire
Per paura di farti soffrire”
Dario si interroga sulla possibilità di esprimere l’amore in modo puro, senza il rischio di ferire chi si ama. Un pensiero che chiunque abbia vissuto l’esperienza della paternità può riconoscere: il desiderio di proteggere il proprio figlio, anche dalle proprie incertezze.

Una felicità fragile e l’eredità del passato
Brunori non sarebbe Brunori se non ci fosse anche un riferimento alle radici, alla terra d’origine, l’amata Calabria e a una visione della vita intrisa di consapevolezza sociale:
“Sono cresciuto in una terra crudele dove la neve si mescola al miele
E le persone buone portano in testa corone di spine”
Il Sud, le difficoltà, la precarietà della felicità: il brano si tinge di una malinconia innata, dove la gioia si mescola sempre alla paura della sua perdita. Brunori cita il sogno del faraone: il riferimento biblico alla parabola delle “vacche grasse e delle vacche magre”, simbolo della ciclicità della vita e dell’alternarsi di abbondanza e carestia.
Ma c’è una svolta, un punto di luce in questo percorso emotivo:
“E tutta questa felicità forse la posso sostenere
Perché hai cambiato l’architettura e le proporzioni del mio cuore”
Alla fine, l’amore vince sulla paura. La paternità, con il suo carico rivoluzionario, riesce a riscrivere ogni cosa, persino le regole di un cuore che si credeva già formato. La voce di Brunori, emozionante sul palco dell’Ariston ha dato vita a questa dichiarazione con una sincerità che ha colpito dritto al cuore.
Brunori Sas ci racconta “L’albero delle noci”
Martedì, a Sanremo, abbiamo avuto l’occasione di incontrare Brunori Sas poche ore prima del suo debutto sul palco dell’Ariston. Ecco cosa ci ha raccontato in vista della sua prima volta tra i Big.
Sanremo è un palco che segna la storia della musica italiana. Cos’è che ti ha spinto, proprio adesso, a metterti in gioco sul palco dell’Ariston?
“Sanremo è stata una scelta dettata dal desiderio di dare alla nostra musica la visibilità che merita. Abbiamo lavorato per due anni su questo album, un progetto a cui tengo molto, e volevamo che avesse i riflettori più potenti e ampi possibili. Sanremo, in questo senso, è un’opportunità unica per portare una canzone davanti a un vasto pubblico. Al di là di tutto il circo mediatico che lo circonda, che in fondo può anche essere divertente, alla fine quello che conta è salire sul palco e far ascoltare ciò che hai scritto. Per me è importante perché stiamo vivendo un periodo storico complesso per chi fa musica e per chi, come me, ha scelto questo mestiere.”
L’albero delle noci è una canzone che parla di nascita e rinascita, con una vena di dolce inquietudine. Quanto di te e della tua esperienza personale c’è dentro questo brano?
“Porto tutto me stesso in questa canzone. La mia difficoltà iniziale era proprio quella: cantare qualcosa di così intimo in un contesto così pubblico. Per questo mi piace particolarmente il verso “la terra si mescola alla neve”, perché dal primo ritornello in poi la canzone si allarga e diventa qualcosa di più universale. Ho pensato che potesse diventare un denominatore comune tra la mia storia personale e quella di tante altre persone. Se non avessi sentito questa connessione più ampia, probabilmente avrei avuto più pudore nel portarla su quel palco.”
Sono passati cinque anni da “Cip!” e hai preso il tempo necessario per lavorare su questo nuovo album. Qual è stato il processo creativo?
“L’album è nato dall’incontro con Riccardo Sinigallia, che è stato non solo il produttore artistico, ma anche coautore di alcuni brani. È arrivato in un momento particolare per me: non ero in crisi, perché sarebbe un termine eccessivo, ma di certo mi sentivo un po’ disorientato, senza una direzione chiara né la giusta motivazione. Ero sereno, ben radicato nella mia vita quotidiana, felice nel mio ruolo di padre e, in generale, come persona. Però, paradossalmente, quando si sta troppo bene le canzoni non vengono fuori. A meno che tu non sia Jovanotti, che ha la capacità di tradurre la gioia in musica. Riccardo è stato una guida preziosa, mi ha aiutato a ritrovare la strada verso la scrittura, facendomi riscoprire ciò che per me è davvero importante. Spero che questo sia percepito anche da chi ascolta il disco.”

Hai detto che l’albero di noce davanti casa tua è un’ispirazione ricorrente, quasi come se ti sussurrasse le canzoni. Se dovessi raccontarlo come un personaggio, che caratteristiche avrebbe?
“Vedo l’albero come un nonno calabrese. Purtroppo non ho avuto la fortuna di conoscere i miei nonni, ma me lo immagino così: una figura saggia, forte della sua esperienza, che mi rassicura sui fondamenti della vita. Mi insegna che tutto scorre, che le foglie cadono, altre crescono, e che anche noi siamo foglioline. Non possiamo attaccarci troppo alle cose quotidiane, perché il tempo passa, e l’albero, con la sua presenza solida, ci ricorda questa verità con naturalezza.”
Il disco esplora la linea sottile tra il bambino che vuole raccontare favole e l’adulto che comprende il valore dell’ombra. Quanto è stato importante per te riconnetterti con questi due lati?
“Diventare genitore ti riporta inevitabilmente in contatto con il tuo “fanciullino” interiore. Ti costringe a rivedere le cose da un’altra prospettiva, a ridisegnare la gerarchia delle priorità della tua vita. È qualcosa che ti rivoluziona: da un lato ti concentri meno su te stesso, il che è positivo, ma dall’altro sai che c’è sempre qualcuno di cui devi occuparti e preoccuparti. Questo cambio di prospettiva fa emergere molte paure, contrasti e momenti in cui vorresti solo stare per conto tuo. Per esempio, non posso più suonare il pianoforte come prima, perché c’è sempre qualcuno che arriva a metterci le mani sopra o a scarabocchiarlo con un pennarello. Ma fa parte del gioco, ed è anche questo il bello.”
Durante la conferenza stampa abbiamo ascoltato Per non perdere noi, che mi sembra rappresentare anche un filo conduttore con Per come noi. Ti andrebbe di raccontarci qualcosa su questo brano?
“Anche la scelta del titolo ha avuto il suo peso. A un certo punto mi sono chiesto: “Ma non somiglia troppo?”. Poi, però, ho pensato che proprio questa somiglianza fosse un punto di forza. In “Per due come noi” ho raccontato diverse sfaccettature di una relazione, ma in quel brano avrei voluto approfondire di più alcuni aspetti, come la profondità e le ombre di una storia d’amore, nonché la difficoltà di mantenere in piedi una relazione lunga. Non ero riuscito a esprimere tutto fino in fondo. Eppure, nonostante questo, quella canzone ha avuto un grande riscontro, forse proprio perché non ho parlato troppo delle inquietudini. Con “Per non perdere” noi, invece, sento di aver completato il racconto. Insieme, questi due brani rappresentano il mio modo di affrontare il tema di una relazione duratura.”
Guardando indietro alla tua carriera, che consiglio daresti al Brunori di qualche anno fa?
“Il consiglio che darei è di non pianificare troppo e di vivere le cose così come arrivano. Ho sempre avuto la tendenza a immaginare e programmare ogni dettaglio in anticipo, al punto da finire per non godermi davvero ciò che stavo vivendo. Nonostante la mia natura artistica, ho anche un lato molto razionale, quasi da “ragioniere”. Ora sto cercando di cambiare approccio, di lasciarmi sorprendere di più. Quindi, se dovessi darmi un consiglio, direi: Dario, pianifica meno e goditela di più!”
Dopo i palasport, porterai la tua musica in un contesto ancora più monumentale con un’orchestra al Circo Massimo e all’Arena di Verona. Cosa dobbiamo aspettarci da questo concerto?
“Dal tour mi aspetto prima di tutto di mettere la musica al centro. Ho la fortuna di lavorare con la stessa band da quasi 15 anni, e credo sia giusto valorizzare questa alchimia. La nostra forza sta nell’essere musicisti con una grande passione per la musica, ed è su questo che vogliamo concentrarci. Ovviamente ci sarà anche un po’ di spettacolo: luci, scenografia e tutto il resto, ma ho deciso in modo netto che, al di là dei contesti più altisonanti, il fulcro resterà sempre la musica. Questo sarà ancora più evidente nelle date orchestrali, su cui stiamo lavorando con delle rivisitazioni speciali. Abbiamo la fortuna di collaborare con maestri come Stefano Amato e Mirko Onofrio, che curano gli arrangiamenti e dirigeranno l’orchestra. Vogliamo che emerga anche la loro capacità di scrittura e composizione, rendendo ogni serata un’esperienza unica.”