Oggi è il 27 gennaio. Una data che, se vivi in Italia, sai perfettamente cosa rappresenta. Lo studi a scuola, fin dalla prima elementare. Hai continuato ad approfondirlo alle medie, poi alle superiori. Magari ci hai pure fatto un esame all’università, oppure sei andat* a vedere in prima persona i luoghi della memoria.
Non è sempre facile empatizzare con ciò che è successo ormai più di 80 anni fa. Quello che ci aiuta è ascoltare i pochi testimoni diretti ancora in vita, ma anche toccare con mano quei posti maledetti.
La conoscenza della spaventosa grandezza della Shoah ci ha reso tutt* ugual*, sotto un certo punto di vista. Tutt* noi sappiamo cosa è successo tra il 1939 e il 1945. Tutt* sappiamo che diversi gruppi di persone, solamente per loro determinate caratteristiche, sono stati perseguitati, espatriati, sfruttati, abusati, depersonificati, deumanizzati e uccisi.
Il 27 gennaio si ricorda la fine, la liberazione: alle 8 della mattina del 1945, l’Armata Rossa ha aperto i cancelli del campo di sterminio di Auschwitz, mostrando al mondo ciò che veramente succedeva alle persone “diverse” e “inferiori”.
Una ghettizzazione, una purga e un procedimento di morte ingegnerizzato iniziato molto prima del 1939, con le limitazioni, i divieti, le esclusioni, la ghettizzazione dei gruppi considerati indegni. Ebre*, omosessuali, Rom e Sinti, persone affette da disabilità o disagi psichici e fisici, prigionieri di guerra, oppositori e oppositrici politic*.
Ed è questa la parte più inquietante. Certo, i grandi orrori che ci sono sempre stati descritti catturano sempre la nostra attenzione. Ma, molte volte, ciò che veramente ci sconvolge (e dovrebbe sempre sconvolgerci!) è la lenta discesa verso l’orrore.
Inizia tutto da un seme di intolleranza, da una sensazione di diversità, da una supposta inferiorità. E, da qui, la banalità del male.
E oggi, 27 gennaio, è il giorno della Memoria. Non basta più ricordare e basta. È impensabile.
Ci troviamo oggi di fronte a un altro genocidio, quello palestinese. E non importa quello che voti nel segreto della cabina elettorale, non importa ciò che credi riguardo alla questione medio-orientale. Non importa.
Importa solo che, se (giustamente) ricordiamo il genocidio ebraico (e non solo) avvenuto più di 80 anni fa, è doveroso riportare ciò che ci è stato insegnato, ciò che proviamo, ciò che sentiamo, nell’oggi. Altrimenti, siamo destinati a ricaderci.
E già oggi potremmo esserci ricaduti.
Ma, oggi, ricordiamo. Qui sotto ti consigliamo alcune canzoni adatte per riconnetterci con la nostra empatia e con il ricordo. E, come sempre, buona riflessione sul presente.
Il Carmelo di Echt – Franco Battiato
Uno dei maggiori esponenti del cantautorato italiano canta di Edith Stein, donna ebrea convertitasi al cattolicesimo. Divenuta suora carmelitana nel convento di Echt, ha cercato di nascondere se stessa e nel mentre di fare del bene, salvando altre persone ebree e bisognose. Neppure la conversione l’ha potuta salvare dal terrore di Auschwitz.
Numeri da scaricare – Francesco De Gregori
C’è odore di bruciato e bambini sepolti in piedi,
puoi pure non guardare,
ma non è possibile che non vedi.
C’è veramente bisogno di dare una spiegazione a questi versi?
Auschwitz – Francesco Guccini
Diventata in seguito “La canzone del bambino nel vento”, questa canzone racconta di un dialogo con un bambino prigioniero nel campo di sterminio di Auschwitz. Anche un essere innocente come un bambino non viene risparmiato dalle brutture della guerra, del freddo, dell’odio.
Il Finale – Baustelle
Ispirata a una storia vera, quella di Olivier Messiaen, compositore francese detenuto nel campo di lavoro di Görlitz. È passato alla storia per la sua composizione “Quatuor pour la fin du temps”, che ha suonato davanti alle guardie e a* prigionier* di Görlitz, stregando tutt*.