Classe ‘98, lucano di origine ma bolognese e romano d’adozione, M.e.r.l.o.t, all’anagrafe Manuel Schiavone, è una delle nuove promesse della musica cantautorale italiana. Reso celebre ai più dal suo inno post-rotture “Ventitré”, che conta oltre diciotto milioni di streams su Spotify, nei suoi brani racconta di una malinconia eternamente connaturata in sé, che solo quando messa per iscritto riesce a farlo liberare.
Del potere catartico della musica se n’è reso conto da piccolo, in macchina col papà, all’ascolto di un brano di Zucchero. E da lì ha cercato di trasformare la sua “tristezza anche in qualcosa di più”
Nel suo nuovo Ep “Ofiuco”, pubblicato sulle piattaforme digitali il 18 ottobre, M.e.r.l.o.t racconta di una maturità nuova, una presa di coscienza ulteriore di ciò che si vuole, che ora riesce a mettere in musica senza indugi. Con la consapevolezza che definirsi indie, nel 2024, è decisamente anacronistico, ma che è possibile cambiare il panorama, passo passo, creando una controtendenza talmente forte da sbaragliare la gerarchia dei numeri.
Come descriveresti Sex and Cocaine a una persona che non l’ha mai ascoltata?
Un po’ come tutte le mie canzoni, ha un aspetto molto triste, cupo. Però, se vogliamo proprio descriverla ad una persona che ha già ascoltato qualcosa di mio, direi una “Lacrime da bere” parte due. Ha sempre quella roba malinconica, però allo stesso tempo ha una forza particolare. Anche se è triste, a me dà la carica.
Il brano è l’apripista del tuo nuovo Ep, Ofiuco. Potremmo dire che l’elemento della carica è un po’ il filo rosso che collega tutto il lavoro?
Senz’altro, può essere considerato un filo conduttore anche con gli altri brani. Quando scrivo una canzone cerco sempre di mantenere questa carica: un brano triste deve avere comunque un aspetto di rivalsa, secondo me.

Nella scorsa intervista con Cromosomi, avevi detto che il filo rosso di Gocce era la malinconia. Quell’aspetto è sempre presente, anche in questo album?
Direi di sì, è sempre presente. Io scrivo per diventare felice: butto giù cose tristi per liberarmi e diventare felice, quindi la malinconia sarà per sempre un filo conduttore. Piano piano sto cercando di trasformare questa tristezza anche in qualcosa di più: deve servire a qualcosa, non deve sollevare solo me, ma anche chi l’ascolta.
Riguardo questo aspetto del saper sollevare, la musica per te è un anestetico o un amplificatore della sofferenza?
È un amplificatore ma allo stesso tempo è un anestetico. Quando ascolto una canzone che mi prende e mi fa piangere sto malissimo, però quel male, non so come, mi aiuta: mi sento capito, tutt’uno con il brano: se in quel momento sto male, subito dopo riesco a stare meglio. Sarò un po’ masochista, però mi piace liberarmi e piangere, e alcune canzoni mi aiutano a farlo. Che poi è quello che cerco di fare anche io con le mie, insomma.
Riesci a liberarti scrivendo?
Con i miei brani sì. Quando scrivo sto malissimo, ma appena finisco non lo so, è come se mi passasse tutto. Ma riesco ad avere lo stesso effetto anche ascoltando le canzoni degli altri.

Che cosa rappresenta la musica per te?
È una zona di comfort, una parte dove del mondo sto bene. Principalmente la utilizzo per riflettere, per pensare; a me piacciono le canzoni che gli altri definiscono pesanti. Mi piace stare sull’autobus mentre fuori piove, con le cuffiette nelle orecchie: devo pensare, farmi dei viaggi.
Ricordi il giorno in cui hai capito che la musica aveva questo potere di astrazione su di te?
Un giorno mio padre mise in macchina “Indaco dagli occhi del cielo” di Zucchero e io non so perché iniziai a piangere. È nato tutto da lì.
In cosa il nuovo Ep Ofiuco si discosta dal precedente Gocce?
Ora ho una maturità diversa, sia perché sono passati un po’ di anni, sia perché piano piano sto capendo cosa voglio. Per “Gocce” sono stato molto felice del lavoro che ho fatto, però era un altro capitolo. Questa volta invece, già partendo dalla creazione, ho subito capito cosa volevo e come volevo farlo, mi sono circondato di persone che avevano la mia stessa identica idea. È un altro capitolo, molto simile al precedente perché alla fine sono sempre io, però un passo avanti sento di averlo fatto.
Nel 2024 si può dire ancora di fare indie, oppure è una definizione che ha perso valore del tutto?
Oramai non esiste proprio più quell’aspetto, i giovani non ricercano più l’indie: quando ero piccolo io, avevo la necessità di scoprire nuovi artisti: più uno era sfigato e più, dovevo andare a cercarlo, ad ascoltarlo. Ora i ragazzini vedono perlopiù i numeri, per questo, secondo me, il concetto di indie non esiste più, mentre prima era proprio una controtendenza. Può darsi pure che tra un anno succederà qualcos’altro e ci sarà una controcorrente. Io lo spero.
Che rapporto hai con i numeri?
Potrei fare il figo dicendo che non mi interessa nulla, ma in realtà non è così. Siamo comandati, non puoi farci nulla. Sono l’unico metodo di paragone che hai, perché tutti si basano su quello. Sto cercando di fregarmene, ma almeno per ora non me ne frego: è una cosa che mi fa stare bene o mi fa stare male a seconda di come va.
In un’epoca così focalizzata sul digitale, che cosa conferisce in più la dimensione dei live?
Quando vai a ascoltare un artista live ti dà proprio un’altra emozione: riesci a vedere tutte le sfumature che vuole darti. Non è facile oggi fare live, andare ad ascoltare un artista nuovo, ma piano piano questo settore si sta riprendendo, anche per gli artisti più piccoli. Il concetto di live è importantissimo, ma è difficile convertire effettivamente le persone che ti ascoltano su Spotify in quelle che effettivamente vengono a live, spero che ci si riesca prima o poi.

E tu che aspettative hai per i tuoi live?
Piano piano sto crescendo sotto questo punto di vista: ho una visione diversa da qualche anno fa. Ora mi sono circondato di una band con cui siamo amici prima di tutto, e spero di riuscire a dare quello che sto costruendo con gli altri, di passarlo anche a chi viene ad ascoltarmi.
In Ventitré, il brano che ti ha reso famoso ai più (e che ha anche da poco conquistato il Disco d’Oro), dicevi “Uno come me che il sole resta a guardarlo e basta”. Ora, col senno di poi, senti di essere ancora fermo a guardare o stai facendo dei passi verso di lui?
Rimango sempre quello che si fa male e va contro le cose che gli fanno male, è una cosa più forte di me. Però sì, qualche passo avanti lo sto facendo. Ma non è che il sole non mi fa più male, semplicemente forse sono io che sto diventando un po’ più forte. Ora riesco a ripararmi.