Il primo giorno del Gaeta Jazz Festival è stato un rito collettivo in cui Marco Castello ha costruito un immaginario di amore e festa.
Succede che vai a un festival pensando di vedere un bel live, di ballare e bere una birra in compagnia. Poi, però, ti ritrovi catapultato dentro una roba collettiva, viva, che pulsa.
Questo è successo lo scorso Venerdì al Gaeta Jazz Festival durante il concerto di Marco Castello. Un’esplosione di leggerezza e profondità, ironia e groove, amore e sudore e tanti altri connubi e scambi.
Fin dai primi minuti, sapevamo sarebbe successo qualcosa di speciale.
Con il suo stile inconfondibile fatto di eleganza nella prosa e faccia tosta, Marco Castello è salito sul palco con un magnetismo prepotente, accompagnato da una band affiatatissima. Un ensemble di musicisti che suonava come un unico corpo, si allineava e si coordinava con un solo gesto delle dita, con un solo sguardo. L’intesa era palpabile, ogni nota sembrava allinearsi e respirare insieme al pubblico, ogni solo era in realtà un tranquillissimo dialogo tra amici vecchi davanti ad uno Spritz.
Con la sua tipica ironia disarmante e quella voce che sembra uscita da una radio anni Settanta, Marco Castello ha saputo raccontarsi a tutti.
Fan giovanissimi, coppie adulte, ragazzi con la birra in mano – tutti, davvero tutti, ballavano, ridevano, si abbracciavano e si baciavano. Una festa che ha unito generazioni, provenienze e gusti musicali.
Il set è stato incredibilmente variegato: da momenti docili e dolci come quello di “Melo” a momenti di pura vita e caos come “Torpi” o “Polifemo”. Oltre al suo repertorio, un omaggio sentito, geniale e libero ad Enzo Carella – un ponte tra epoche diverse che però sono figlie della stessa matrice e possiedono la stessa voglia di giocare, sedurre, sperimentare.
Marco Castello al Gaeta Jazz Festival non ha fatto solo un concerto, ma ha costruito un rito collettivo.
Un’aggregazione spontanea e potente, una celebrazione della musica come collante sociale. I generi si sono mischiati così come le persone (ed il sudore): jazz, funk, pop, psichedelia, cantautorato italiano, groove tropicale. Tutto convivendo in armonia perfetta.
Non era nostalgia, non era revival. Era presente, pieno e caldo. Il pubblico lo sentiva e rispondeva. Applausi, urla, sorrisi – senza barriere, solo energia che rimbalzava tra palco e giardini, avanti e indietro.
La splendida location immersa nella natura, a due passi dal mare, ha contribuito a costruire un ambiente aperto e di restituzione, tant’è vero che alla fine della prima sera, la sensazione comune era chiara: qualcosa di speciale era appena accaduto.
È stato uno di quei momenti che non programmi e non sai mai quando potresti avere uno scambio del genere. Uno di quei momenti che, però, quando succedono, ti riconciliano con tutto. Con l’idea che la musica è un linguaggio. È un modo di dirsi “ci siamo”.
E quella sera, a Gaeta, c’eravamo tutti.