Fabrizio Moro torna con un nuovo capitolo della sua storia artistica e personale, e lo fa scegliendo la strada meno facile: quella della concretezza. Non ho paura di niente, in uscita oggi, venerdì 14 novembre solo in formato fisico CD, vinile classico e una tiratura deluxe “green petrol” limitata e numerata. È un disco che sembra andare controcorrente rispetto all’epoca in cui viviamo. Mentre il mercato corre a una velocità disumana, tra brani lanciati a raffica e album che durano quanto un trend, Fabrizio si ferma, guarda dentro, scava, elimina il superfluo e sceglie nove canzoni che resistono al tempo, al rumore di fondo e alla frenesia. È il suo decimo lavoro in studio, e arriva a più di due anni e mezzo dal precedente: un distacco che racconta già molto del suo modo di tornare.
Dove finiscono le paure? In queste nove canzoni
Il disco nasce da un periodo complicato, un momento in cui il disincanto verso l’ambiente musicale e il clima post-pandemico hanno pesato sulle sue spalle al punto da rallentare ogni slancio creativo. “Ho messo cuore e fegato”, ci dice lui, e si sente. Le nove tracce prodotte da Katoo intrecciano confessioni, storie di strada, fragilità esposte, solitudini che vibrano e quella tensione emotiva che da sempre caratterizza la sua scrittura. Dalla title track a “Simone spaccia”, da “Casa mia” a “Superficiali”, fino alla disperata dolcezza di “Toglimi l’aria” e alla malinconia piena di polvere e memoria di “Scatole”, singolo disponibile da oggi su tutte le piattaforme digitali. E ogni brano sembra un pezzo di un percorso più grande: quello di un uomo che non ha paura di mostrarsi come è, anche quando fa male.
Il ritorno non è solo discografico: per presentare il disco, Fabrizio ha organizzato un instore tour che partirà proprio oggi dalla sua Roma. Poi Napoli, Bari, Firenze, Milano, Torino, Catania e Palermo: un giro d’Italia fatto di librerie, sguardi diretti, strette di mano e chiacchiere a pochi centimetri dal pubblico. Un bisogno di contatto che va in direzione opposta rispetto alla distanza a cui la musica digitale ci ha abituati.
Nel 2026 il viaggio continuerà sui palchi
Non ho paura di niente Live debutterà con un’anteprima il 2 maggio al Palazzo dello Sport di Roma, per poi trasformarsi in un vero tour autunnale che lo porterà nei principali club: da Padova a Milano, da Torino a Bologna, passando per Firenze, Napoli e giù fino a Catania. Sarà l’occasione per riascoltare i pezzi che hanno segnato il suo cammino, dagli esordi fino agli ultimi anni, ma soprattutto per sentire dal vivo, per la prima volta, le canzoni del nuovo album.
La carriera di Fabrizio attraversa oltre venticinque anni di musica, dischi, sale prova, prese di posizione, collaborazioni importanti e premi. Dalle vittorie a Sanremo alla scrittura per altri artisti, passando per il suo lavoro da regista, la sua voce non ha mai perso la capacità di essere un luogo in cui le persone trovano qualcosa che gli assomiglia. Non ho paura di niente aggiunge un tassello importante: non è un album che vuole convincere, è un album che vuole raccontare. Con la stessa intensità di sempre, ma con uno sguardo più profondo e più libero. Un disco che si prende il suo tempo, e che invita chi lo ascolta a fare la stessa cosa.
Fabrizio Moro e la nuda verità degli errori: “Non ho paura di niente”
Ci sono canzoni che arrivano come un consiglio, altre come una carezza. “Non ho paura di niente” no: questa arriva come una resa dei conti. Non è un brano da ascoltare: è un brano da attraversare. Come quando ti guardi allo specchio e capisci che, per quanto tu abbia provato a sistemare tutto, l’unica cosa davvero necessaria è smettere di fuggire. L’abbiamo sentita così. Come un pugno gentile, uno di quelli che ti tolgono l’aria ma ti rimettono in ordine. Fin dall’inizio, Fabrizio sembra scrivere a nome di tutti coloro che hanno sbagliato per inerzia.
“Ho sbagliato così, senza neanche guardare. Ho sbagliato perché non avevo nient’altro da fare.”
Questa ammissione è quasi crudele nella sua sincerità. Non sbagli per impulsività, ma per vuoto. Per confusione, per stanchezza, per quella apatia che ti fa dire “sì” quando dovresti dire “no”, e “no” quando dovresti salvarti. E quando ammette “tutti i miei sbagli ce li ho nelle vene”, io ci leggo quella sensazione che ho conosciuto anch’io: il momento in cui gli errori non li porti più addosso, li sei. Ti definiscono. Non sai se fanno più parte del passato o del presente. Eppure la svolta arriva.
“Io di te non ho paura più.”
In quel “te” ognuno mette ciò che vuole: una relazione finita male, una dipendenza emotiva, una voce interiore che non ti lascia respirare. Nel mio, ci ho messo un periodo della vita che non volevo guardare più. Quello che ti rimane attaccato addosso come fumo vecchio.
“Io rivoglio la mia vita per davvero”
La promessa che ci si fa quando si ha ancora paura ma si decide di andare avanti lo stesso. Poi ci sono le bad memories, eppure sono lucidissime. Fabrizio elenca le sue paure come fossero fotografie buttate sul tavolo. Sono immagini minuscole, intime, che però parlano di cose grandi: tentativi, illusioni, compromessi. Ci sono momenti della vita in cui ti rendi conto che certe cose le hai lasciate andare male tu, senza accorgertene. Che “capire” era un dovere che non hai avuto il coraggio di affrontare.
Fabrizio lo dice con un’immagine semplice, quasi da casa dei nonni. E proprio per questo fa più male. Ci sono frasi che sembrano facili, ma non lo sono affatto. Guardare in alto è un atto di fiducia. È decidere che un’altra versione di te esiste, anche quando non la vedi ancora. È un gesto piccolo, ma radicale. E nella voce di Fabrizio Moro diventa la certezza che, sopra tutto questo casino, ci sarà sempre qualcosa che brilla. La sensazione che la paura non sia un nemico da abbattere ma un’ombra da attraversare. La liberazione non arriva negando le proprie fragilità, ma mettendole sul piatto, una dopo l’altra.
“Simone spaccia”: la ferocia di una storia che non salva nessuno
Ci sono canzoni di Fabrizio Moro che parlano di qualcuno, e altre che parlano per qualcuno. “Simone spaccia” fa entrambe le cose: racconta un ragazzo qualunque, ma allo stesso tempo dà voce a un’intera generazione cresciuta negli angoli storti delle città, dove i cognomi contano più dei sogni, e il destino non si sceglie: si eredita.
È una canzone dura, quasi spietata, che non concede redenzione né morale. Il frutto non cade mai lontano dalla pianta: l’inizio di una condanna? Fabri apre il brano così, con un proverbio che tutti abbiamo sentito da bambini, ma che qui diventa una maledizione. Simone lo ripete invece con orgoglio, come fosse un marchio di famiglia. Il brano ti piazza davanti una verità brutale: che ci sono ragazzi che nascono già con lo stigma addosso, con un cognome che pesa come una sentenza. Simone gioca a fare il boss, ma la verità è che sta solo cercando un modo per sopravvivere alla storia che gli è stata cucita addosso.
La strada è la sua scuola, gli insegna violenza, diffidenza, ruoli prestabiliti. La speranza non è una parola, perché nessuno gli ha mai spiegato cosa significhi. La speranza non è un concetto: è una lingua. E Simone non l’ha mai imparata. E qui è impossibile non pensare a tutte quelle volte in cui vediamo qualcuno “da fuori” e ci convinciamo di sapere già tutto. In realtà non sappiamo niente: vediamo i segni, ma non la storia che li ha messi lì.
Perché Fabrizio quando scrive questi brani non moralizza, non giudica, non salva. Fa qualcosa di molto più scomodo: racconta. E quando racconti una storia come quella di Simone senza filtri, senza abbellimenti, senza scorciatoie narrative, ti ritrovi davanti allo specchio di una realtà che spesso preferiamo ignorare. E forse è proprio questo che rende la canzone così potente: che ci dice che non basta voltarsi dall’altra parte. Che dietro ogni nome c’è un sangue, una storia, una famiglia, un luogo. Eche certe vite, se non le guardi negli occhi, rischi di condannarle due volte: nella realtà e nel silenzio.
“Casa mia”: quando le pareti diventano un testimone silenzioso dell’assenza
In “Casa mia” la solitudine è quasi un personaggio, uno di quelli che si intrufolano nelle stanze, siedono sul divano e finiscono per conoscere più cose di te di quanto tu voglia ammettere. È una canzone che non parla solo della fine di una storia: parla del dopo, del dopo-dopo, di quel tempo in cui non succede niente, ma proprio per questo succede tutto.
“Non provo niente, tranne quando bevo solo un goccio in più.”
Lì Fabrizio tocca un nervo scoperto: il momento in cui la vita diventa un insieme di gesti automatici e l’unica reazione arriva da un leggero stordimento. È un modo elegante per dire: non mi sento vivo, ma almeno sento qualcosa. Poi l’immagine della TV comprata “per vedere il mondo in guerra”.
Come se il caos fuori potesse distrarre dal caos dentro. E in fondo funziona: guardare fuori, gli altri, sembra meno doloroso che affrontare la propria sofferenza. Non servono metafore elaborate: basta la sensazione fisica dello spazio che si dilata, degli oggetti che fanno rumore, dei silenzi che prendono volume.
Pensieri che portano via
“I pensieri lo fanno… e ti portano via.”
Sono la parte più onesta della canzone, quella in cui Fabrizio ammette ciò che tutti sappiamo ma spesso non diciamo: i pensieri non sono neutrali, non sono spettatori. Sono un fiume che trascina.
“Sono un flusso di sangue che a volte la testa a caldo al cuore invia.”
E lì c’è tutto: la verità che non si vuole dire ad alta voce, la nostalgia che prende forma fisica, l’ammissione che l’amore non muore quando finisce: cambia forma e cambia stanza, ma resta.
“Ci incontreremo per le strade di questa città, fermi a un semaforo di notte oppure dentro a un bar.”
Fabrizio non sta immaginando una riconciliazione. Sta raccontando quel fenomeno stranissimo per cui, dopo una storia importante, l’altro continua a esistere nei luoghi che viviamo. L’amore non muore: si trasforma in un fantasma gentile. Ti aggancia il pensiero mentre attraversi un incrocio, mentre ordini un caffè, mentre fai finta che tutto sia normale.
Nel finale, i pensieri tornano a portare via tutto: storia, ricordi, serenità. È un loop che non si annulla ma si assottiglia. Il mondo continua a muoversi, anche quando tu sei fermo. La vita va avanti, anche quando tu rimani indietro a cercare ciò che non c’è più. Perché Fabrizio riesce a far parlare gli spazi: i muri, il tetto, il salotto, persino il telecomando. Perché non descrive il dolore: lo abita. E perché qui l’assenza non è una tragedia: è una presenza sottile, quotidiana, che si insinua nelle cose minime. Con la speranza che un giorno quel vuoto non faccia più così rumore.
“Superficiali”: la richiesta impossibile di essere leggeri quando tutto pesa
“Superficiali” racconta l’amore mentre implode. È il ritratto di una coppia che non scoppia, si sgretola. E Fabrizio lo fotografa con lucidità perché è vera.
“E pure hai ragione quando non dici niente, e parla per te la tua calma apparente.”
È quella dinamica sotterranea che conoscono bene le coppie al capolinea: il silenzio che diventa lingua dominante, e la calma che è solo un modo elegante per non piangere. E tra quei capelli sistemati quasi per nervosismo, quasi per abitudine, c’è tutta la fragilità di un rapporto che prova a rimanere in piedi senza avere più le fondamenta. Poi arriva la constatazione. La verità che nessuno voleva dire ad alta voce.
Essere “superficiali”: il lusso che non ci possiamo permettere
Perché chi sta male, chi sente tutto troppo, chi analizza, scava, soffre, lo sa: essere superficiali non è un difetto. È un privilegio. È la leggerezza che vorresti, ma che non ti appartiene. Capita a volte di avere l’unico desiderio di smettere di sentire così tanto. Prendersi una pausa dai sentimenti. Respirare in superficie, invece di affogare ogni volta.
“Non sei riuscita mai a guarire i tuoi disordini.”
È quel tipo di frase che non vuoi dire, ma ti esce quando capisci che l’amore non basta a sistemare i terremoti emotivi degli altri.Puoi contenere, puoi abbracciare, puoi restare ma non puoi guarire nessuno. E a volte arriva la nostalgia che qui non è ricordo, è rimpianto.
Perché l’amore, in questa canzone, è quasi una dipendenza. Una sostanza necessaria. La cosa che, quando c’è, sostiene, e quando manca, toglie ossigeno. L’amore non ci salva, ma senza amore non viviamo.Ed è un pensiero scomodo. Ma chi ha amato davvero sa che è vero.
“Superficiali” racconta ciò che normalmente si evita: il desiderio di spegnere il cervello per un po’. Il bisogno urgente di non sentirsi sempre così profondi, così devastati, così complicati. Vorremmo sentirci meno, ma siamo fatti di sentimenti; vorremmo essere superficiali, ma non sappiamo esserlo; vorremmo smettere di amare così forte, ma non ci riusciamo.
“In un mondo di stronzi”
Fabrizio Moro ha sempre avuto un talento particolare: sa parlare delle cose serie senza sembrare pesante, e delle cose leggere senza sembrare superficiale. “In un mondo di stronzi” è forse uno degli esempi più limpidi di questa sua capacità. Una canzone che sulla carta sembra quasi uno scherzo, un titolone provocatorio, immagini quotidiane, ironia sparsa e che invece è un ritratto della fragilità emotiva contemporanea.
Qui Fabrizio mette in scena due persone che si studiano, si sfiorano, si raccontano mezze vite e mezze verità, con la stessa cautela con cui oggi si inizia qualsiasi cosa: un passo avanti, due indietro, tre messaggi vocali, un “vediamoci un po’ di più”, un “ma anche no”. Parte una frase da speed date, ma fatta col freno a mano tirato:
“Come mai sei da sola?”
È la domanda più invadente e più usata del mondo. Eppure la di usa subito, perché è il modo più schietto per dire: sto cercando di capirti, anche se non so bene come si fa. Lei ha una vita nuova che sta costruendo, una laurea sudata, esami ripetuti, un’indipendenza che forse è appena nata.
Lui invece viene già con “accessori inclusi”: una casa arredata, una mezza eredità, un desiderio di paternità già confezionato. Un’immagine quasi tragicomica: oggi il futuro arriva sempre prima dei sentimenti. Possiamo radiografare perfettamente le relazioni moderne: un mix di entusiasmo, cinismo e prudenza. Nessuno si sbilancia mai. Tutto è un “vediamo”, “forse”, “se ti va”, “senza impegno”. E poi arriva:
“Lo dico io, lo dici tu, il mondo non si sposta.”
Tradotto: qualunque cosa succeda tra noi, là fuori tutto resta uguale. Non c’è epica, non c’è destino: solo due persone che cercano di capirsi in mezzo al rumore.
Poi elenca dettagli di coppia che sembrano poco poetici e invece dicono tutto. Sono scene buffe, quasi sgraziate, ma raccontano la verità: che oggi l’amore si costruisce nelle piccole scelte pratiche, non nelle grandi dichiarazioni. Ma in un “mondo che fa schifo”, dove tutti sono distratti, cinici, feriti, spaventati, siamo giovani, siamo svegli, siamo consapevoli e siamo esausti. La tristezza è diventata una condizione condivisa.
“Comunque mi vedi”: la liberazione che arriva solo quando dici ciò che fa paura
“Comunque mi vedi” è una confessione fatta sul filo del rasoio, il punto esatto in cui il bisogno di raccontarsi vince sulla paura di essere fraintesi. C’è la verità e la verità, si sa, fa casino. Dire tutto è un atto di coraggio, ma anche di follia. Perché quando racconti le parti peggiori di te, le croci, i mostri, le voci, stai consegnando all’altro la chiave del tuo punto più vulnerabile.
Dice: ho detto la verità, anche se non serve a salvare niente. Eppure la verità arriva lo stesso, come un dovere verso se stessi più che verso l’altro. Perché mi vedi anche quando non vuoi vedermi, anche quando fingi di non sentire, anche quando distogli lo sguardo. Mi vedi perché ormai sai chi sono davvero. Poi se non mi vedi, se fai finta di niente, è perché hai paura tu.
“Sabato” e la confessione di chi ha vissuto sempre in difesa
In “Sabato”, Fabrizio Moro cerca di rallentare. Questa canzone è una sospensione, un invito a respirare, un tentativo di ricatturare quella leggerezza che l’età adulta ti ruba senza nemmeno chiedere permesso. È un brano che sembra un’uscita serale, e invece è un confronto con se stessi. Uno sguardo allo specchio, ma con un drink in mano e un sorriso che nasconde più cose di quante ne racconti.
“Devo fermare il tempo”
Sembra una frase che dici a fine anno, o dopo una delusione, o in uno di quei periodi strani in cui senti di aver perso pezzi mentre correvi. Ci racconta la verità di chi ha vissuto sempre pronto a parare i colpi, a controllare tutto, a proteggersi da ciò che può ferire. E quando vivi così, godersi il momento diventa un lusso. L’amore, infatti, non è un rifugio: “ferisce e fa male, un po’ mi ha spento.”
“Sabato tutti ballano”: la leggerezza come antidoto alla solitudine. Il sabato è il giorno in cui tutto si sospende, la città si illumina, i problemi si mettono in pausa. E soprattutto: nessuno vuole stare da solo. La paura di perdersi dentro una settimana troppo lunga.
“Abbiamo tutti un talento a nascondere quello che siamo.”
È così. Lo facciamo ogni giorno. Sorridiamo quando siamo stanchi, ridiamo quando siamo soli, camminiamo dritti quando dentro tremiamo. Forse non siamo nemmeno così bravi. Forse ci tradisce la voce, lo sguardo, il sabato sera in cui crolliamo davanti a un cocktail annacquato. C’è la voglia di stare bene e la paura di ammettere che non ci riusciamo, la leggerezza cercata come medicina, la nostalgia dei vent’anni, la consapevolezza che crescere fa rumore, la necessità del sabato come boccata d’ossigeno.
“Toglimi l’aria”: un desiderio per non affogare
“Toglimi l’aria” è un incrocio pericoloso tra malinconia e bisogno, tra memoria e corpo, tra ciò che non c’è più e ciò che continua a farti vibrare sotto pelle. Non racconta una storia d’amore, ma quello che succede dopo, tutto ciò che l’amore lascia quando se ne va: nostalgia, tentazione, solitudine, dipendenza emotiva, desiderio fisico come analgesico.
“Resta forte la tentazione che mi sussurra una direzione.”
La tentazione come bussola, come porto sicuro anche quando fa male. Ci sono persone che perdi due volte: una quando se ne vanno e una quando finalmente capisci perché. E l’unico modo che hai per sentirti vivo è proprio l’unica cosa che ti uccide un po’. Baciami come se potessi risolvere il problema, anche se non serve a niente. Baciami perché il dolore diventa sopportabile quando non respiri.
“Illuderemo ancora l’anima.”
È la consapevolezza di mentirsi pur di sentirsi bene. La verità non guarisce. Il corpo, almeno per un po’, sì. La nostalgia è il tempo che scivola via senza chiedere il permesso, portandosi dietro momenti che non tornano. Il mondo cambia, ma la tentazione resta sempre uguale. Tutto è andato avanti, tranne questa cosa che mi lega a te. Parla dell’attesa che logora, che si mangia le giornate, che diventa una forma di abitudine tossica. L’attesa che non serve a niente ma che ripeti perché non sai fare altrimenti.
Arrendersi alla libertà significa accettare che l’altro non tornerà. E questo, a volte, fa molto più male di rimanere incastrati in un legame che non funziona più. È lo spazio sospeso tra una storia finita e una storia che non riesci a lasciar andare. Perché parla del desiderio non come qualcosa di bello, ma come un anestetico emotivo. Perché ammette che a volte baciarsi è un modo per rimandare il dolore, non per risolverlo. Mette in scena un’umanità fragilissima, la storia di due persone che si cercano ancora, perché non sanno ancora respirare da sole.
“Scatole”: l’arte di svuotare la memoria senza riuscirci mai davvero
Ci sono mobili che non apri mai, perché sai esattamente cosa c’è dentro, e quanto farà male guardarlo. “Scatole” è così: una canzone che ha l’odore della polvere, il colore delle fotografie ingiallite e il rumore dei ricordi che spostiamo da un angolo all’altro sperando che smettano di chiamarci. Fabrizio prende un gesto quotidiano, aprire scatoloni lasciati a invecchiare e lo trasforma in una seduta di psicoanalisi emotiva. Senza analista, senza divano, solo lui, gli oggetti, e quella domanda che punge tutto il brano: dove sei finita? che fine abbiamo fatto?
Chiunque abbia vissuto un trasloco, una separazione o una perdita sa esattamente cosa significa. Le scatole diventano mausolei della vita passata: non le apri, ma non le butti. Le eviti, ma non le tradisci. E intanto invecchiano, come tutto. Dentro ci trovi le fotografie: alcuni volti li hai dimenticati, altri li hai amati, alcuni non ci sono più.
È una sceneggiatura da pomeriggio lento, da giorno di pioggia: apri una scatola e ti ritrovi tra le mani emozioni che avevi riposto “temporaneamente” anni fa. Ma può passare il tempo, possono cambiare le persone, ma certi odori restano incollati. Sono i veri fantasmi della memoria.
Fabrizio non parla di nostalgia in modo drammatico: la racconta come una parte inevitabile del vivere. Perché parla dei ricordi non come nemici, ma come compagni scomodi. Perché mostra come la memoria sia fatta di oggetti, certo, ma soprattutto di domande senza risposta. E perché alla fine, dopo tutto il dolore, dopo tutto il disordine, dopo tutti i ricordi che rischiano di travolgerti come un’onda, la canzone lascia una verità semplice e luminosa: la vita, comunque sia, resta bella. Soprattutto quando hai il coraggio di aprire le scatole.









