Intervista a Fabrizio Moro: dentro “Non ho paura di niente”

da | Nov 14, 2025 | Interviste

Il nuovo capitolo di Fabrizio Moro arriva con la forza delle cose vere: “Non ho paura di niente”, disponibile da oggi 14 novembre solo in CD e vinile, è un disco che scava, racconta, denuncia e si espone. Un lavoro nato tra inquietudini e desiderio di autenticità, che Fabrizio presenterà direttamente al pubblico negli instore e live nel 2026.

L’abbiamo incontrato negli uffici di BMG, in una stanza piena di luce e di dischi alle pareti, lo sguardo concentrato ma gentile di chi sta per consegnare un pezzo importante della propria vita. Con Fabrizio abbiamo parlato dell’uscita di Non ho paura di niente, ma soprattutto di ciò che si nasconde dietro ogni brano: dei personaggi che lo hanno accompagnato e che tornano in “Simone spaccia”, dei luoghi che diventano rifugi o ferite come in “Casa mia”, della voglia di leggerezza che non arriva mai davvero come in “Superficiali”. Ci ha raccontato come si sopravvive “in un mondo di stronzi” restando sensibili, come si impara a mostrarsi davvero allo sguardo dell’altro in “Comunque mi vedi”, e di quel sabato che cambia forma con gli anni, specchiandosi nei passi di suo figlio. E poi c’è la lotta costante tra libertà e amore di “Toglimi l’aria”, fino ai traslochi emotivi di “Scatole”, dove ogni oggetto diventa memoria. Nelle sue parole c’era la stessa urgenza delle sue canzoni: il bisogno di raccontare la vita senza attenuarla. E noi eravamo lì, ad ascoltare tutto ciò che il disco non dice ma che lui, guardandoci negli occhi, ha scelto di condividere.

Il coraggio di raccontarsi senza filtri: intervista a Fabrizio Moro

Come vivi il rapporto con la tua creatività e con le tue paure?

“Mi è successo spesso di prendere le parti peggiori di me e di farle diventare migliori rispetto a quello che percepivo. È un processo, quello della creatività, che mi ha sempre spaventato, perché credo che sia una delle mie paure più grandi, visto che parliamo di paura: la paura di perdere il talento di trasformare quello che ho dentro in canzoni. Questa è una cosa che comunque mi pervade da sempre, da quando ho iniziato. Disco dopo disco, per rimettere dentro tutto, per arrivare alla punta di diamante, quella che poi sblocca il resto del lavoro, passano sempre diversi mesi. Questa volta, invece, è durata un po’ più del solito, perché è un periodo particolare: questo disco ho iniziato a scriverlo nel post-pandemia e ci ho messo davvero tanto tempo per riattivarmi. Sono state scritte circa 40 canzoni in due anni e mezzo, per poi scegliere le nove che vanno a comporre questo album.”

Perché stavolta hai avuto bisogno di più tempo per sbloccarti?

Allora, questa volta ci ho messo un po’ più di tempo per sbloccarmi, appunto per trovare la canzone che mi facesse dire: ‘Non ho paura di niente’. Quando entri in studio ognuno ha il suo processo, ogni artista ha il suo metodo. Il mio è sempre quello di partire un po’ in sordina, come quando vai in palestra: il primo giorno ti fanno male le ossa, poi c’è l’acido lattico, poi ti rimetti in moto dopo tanto tempo. Così, le prime canzoni che ho scritto ovviamente non mi hanno dato una bella sensazione, finché poi arriva un momento, non si sa perché, non riesco a spiegarlo bene, in cui prende quella fiammella che si accende e riesce a diventare un bel fuoco. E da lì in poi vai avanti. Non è semplice, per come la vedo io. Io non l’ho mai vissuta come una cosa istintiva, tipo: arriva l’ispirazione e metti giù il pezzo. È successo pochissime volte nella vita, penso proprio due o tre: prendere la chitarra, scrivere la canzone dalla A alla Z e finire in dieci minuti. Io ho sempre ragionato molto sulle cose.”

Come vivi il cambiamento dell’industria musicale e questa “bolla digitale” di oggi?

“Questa è una cosa che va avanti da diversi anni, perché io faccio parte di quella generazione di cantautori che sta un po’ in mezzo: quelli tra i 40 e i 50 anni, che non sono né anziani che hanno potuto mettere da parte un pacchetto di canzoni importante, né giovani, che invece si affidano molto più d’istinto ai nuovi modi di comunicare. Siamo i figli di nessuno, come ho raccontato in un’altra canzone, e questa cosa l’ho sofferta tanto. Passare da una fase storica in cui un disco nasceva in studio, si mixava in studio, si stava lì anche per mesi o anni con il produttore a fare ricerca, a questa bolla di musica digitale scoppiata così improvvisamente… questa cosa mi ha terrorizzato. Io non riesco ad andare di fretta, a stare dietro al sistema, al mercato, al concetto della discografia moderna. Io ho bisogno di tempo per fare le cose. Ho capito che l’unica soluzione è mettermi lì e continuare come ho sempre fatto: così è più sano. In questo disco, alla fine, manco dalla scena da due anni e mezzo. E quando arriva l’addetto ai lavori che ti dice: ‘Devi tornare, perché sennò ti scordano’, io rispondo: ‘Beh, allora si ricorderanno quando uscirà il nuovo disco’.

Oggi ci sono miliardi di artisti: cantano tutti, scrivono tutti. C’è quello che ti insegna come versare la birra senza fare la schiuma, quello col bikini… ognuno canta. Va di moda il concetto del virale. Per me la cosa più importante è sempre stata scrivere canzoni che restassero nel tempo. I numeri li guardo anche io, perché i numeri ti permettono di sopravvivere, però l’importante è essere un cantautore. Alcune volte ci sono riuscito, per la maggior parte no: su 40 canzoni ne escono due o tre “evergreen”, però il concetto è sempre quello. Diventare immortale attraverso le parole: quello è ciò che mi interessa. E per far sì che ciò avvenga, io non riesco ad andare di corsa.”

Che differenza c’è tra produrre un emergente e lavorare invece con un cantautore come te?

Se un produttore lavora con un ragazzo emergente ha un compito molto più semplice, perché la maggior parte degli artisti che si avvicinano da poco alla musica devono ancora trovare il loro vestito ideale. Ci vuole tempo. Almeno per me è stato così. Quando invece lavori con un cantautore, l’arrangiamento sta già nelle canzoni. Io partecipo all’arrangiamento, alla produzione, sono dentro i pezzi. Per esempio, quando ho scritto “Non ho paura di niente”, sapevo già che quel tipo di rullante avrebbe avuto quel tipo di cassa, quel tipo di basso. Se mi metti una cosa diversa che va a snaturare la canzone, non va bene. Non c’è un’epoca per questa cosa: la canzone si porta già dietro il suo arrangiamento e il suo sangue, almeno per quanto mi riguarda. Se vai a cambiare la frequenza del rullante, per me il pezzo cambia completamente. A volte si rischia di rovinare l’essenza di un brano per renderlo più moderno. È meglio farlo suonare “vecchio” ma mantenere integro il senso. Quando una roba arriva, non arriva perché è moderna o perché è vecchia: arriva perché è vera, sincera, trasparente. E la sincerità e la trasparenza stanno anche e soprattutto nel vestito, non solo nel testo o nella melodia.”

Hai vissuto notti insonni per colpa di arrangiamenti che non funzionavano?

Ci sono state notti insonni perché ero convinto di aver scritto un bel brano, e poi l’arrangiamento iniziale, quello istintivo, non funzionava. Non girava. Il pezzo si rovinava. E quindi dicevo: ‘No, questo pezzo non è bello’. Pensavo: ‘Nuovamente devo trovare la canzone che svolta la mia vita’, e invece no, non funziona. Sai quante volte mi è successa questa roba? Io lavoro con gli stessi musicisti da vent’anni. L’atteggiamento moderno è quello dei produttori delle major che vanno di corsa, cercano di fare più canzoni possibile, di trovare subito il prodotto. Suonare è divertente, la parte più bella è il live; la seconda parte più bella è suonare in studio e arrangiare i pezzi che hai scritto. Io non riesco a concepire un mondo senza quella roba lì. Ho lavorato anche con un produttore giovane come Francesco Catitti, che ha fatto molti successi negli ultimi anni. Inizialmente, abituato a lavorare con ragazzi di un’altra generazione, ha improvvisato delle cose con la chitarra digitale, il basso digitale… Ha cambiato tutto. Dopo due giorni non si poteva andare avanti. Però si è convinto da solo, perché ha capito che quella roba lì non poteva andare: non suonavano. Se su una frase come ‘i vicoli ciechi, le due sigarette’ ci metti una chitarra digitale, cambia pure il testo. Il testo non ti arriva più come è stato concepito. I suoni sono fondamentali anche per sottolineare l’espressione letteraria della canzone.”

Come vedi questo ritorno intimo nei club?

I club non sono poi così intimi: c’è questa idea strana dei club, ma ci sono club da 3000-4000 persone. E in questo momento sono anche difficili da trovare e da riempire, perché ci sono miliardi di tour e proposte. Io credo che ogni contesto in cui sono andato a suonare mi rappresenti. Questo è un disco che puoi suonare nei club, nelle piazze, nei palasport, nei teatri. Non c’è un contesto giusto o preferibile per le mie canzoni. So solo che quella è la parte più importante per me. Oggi, per le vendite, per i live, funziona così: prima si faceva il disco, e negli anni ’80 nemmeno si andava in tour. Non si facevano concerti. Oggi invece è diventata la prassi: si fa il disco per andare a suonare.”

In “Simone spaccia” racconti un personaggio e un contesto. 

“Ci sono dei personaggi che esistono davvero, e questo ha portato anche a una serie di problemi, perché quando torni nel quartiere ti dicono: ‘Ma tu parli di me… l’importante è che non fai il cognome, sennò fai la spia’. Simone si chiama proprio Simone. Se si fosse chiamato Franco o in un altro modo… Io sono in fissa per il suono delle parole: Simone è un nome che suona bene, e mi veniva sempre questa melodia in testa. Effettivamente questo ragazzo è quello che fa — o faceva — quello che racconto. Uso spesso i personaggi del contesto sociale in cui sono cresciuto e che ancora vivo, in parte, per descrivere la mia realtà. Simone esiste davvero, e si chiama così.”

Che ruolo ha avuto BMG in questo nuovo percorso?

“Devo ringraziare BMG perché, al di là dei consigli preziosi, la scrittura dei testi, le fotografie, i colori, mi hanno riportato un po’ indietro nel tempo. Questi ragazzi hanno un approccio alla musica completamente diverso dalle multinazionali. Li ho conosciuti in un momento in cui volevo smettere di scrivere canzoni. Mi ero “rotto i c*****i”. Poi ho conosciuto il presidente e tutti i ragazzi della squadra. Mi è tornata la voglia di fare musica come negli anni ’90: ci siamo seduti e abbiamo iniziato a parlare dei pezzi. Non sono gente che corre dietro ai numeri, non si approcciano in modo malato a questa roba claustrofobica che non si ferma mai. Lo dimostrano anche gli artisti del loro cast. Mi hanno dato una siringa di energia che mi mancava da un sacco di tempo.”

Ti senti più sereno oggi? Più pacificato rispetto al passato?

“Io credo sia la vecchiaia questa. Però sì, anche il fatto che questo è un bel periodo della mia vita: sono i cinquant’anni. Prima di arrivare a mezzo secolo ero terrorizzato da questo numero, poi una volta che l’ho toccato… non so se mi è venuto naturale o l’ho ricercato questo bilancio, però ci ho pensato, e sono contento. Fino ad oggi ho avuto una vita bella: alti e bassi, anche bassi bassi e alti alti. E soprattutto ho preso consapevolezza. Oggi faccio la vita che volevo fare quando ero adolescente. Questa cosa mi ha rasserenato tanto, mi dà tanta soddisfazione. Se dovessi morire oggi… mi girerebbe il culo, perché devo fare ancora tante cose. Però avrei un sacco di cose da raccontare a Gesù Cristo.”

Tu sei credente? E ti senti in debito o in credito con la vita?

Io mi sento in debito. Anche il fatto di avere figli adolescenti… erano bambini e li affrontavo in un modo; ora che sono grandi e con una cultura diversa, creare un rapporto con due persone che amo immensamente, e che mi amano immensamente, mi dà un equilibrio diverso rispetto a quando erano bambini. Questa cosa penso si rifletta anche nella musica. Sono credente: prego, però prego a casa, perché non credo nella Chiesa.

Hai accennato più volte ai traslochi: che rapporto hai con questi cambiamenti continui?

Ho il problema dei traslochi: ho cambiato sei case in dieci anni. Ogni volta che mi sposto mi porto dietro le mie scatole, e quando le riapro faccio dei viaggi immensi. Mi rendo conto, attraverso queste cose, che il tempo non passa così in fretta come crediamo. È un luogo comune dire: ‘Ci siamo visti qualche anno fa, come passa il tempo!’. In realtà il tempo, almeno nella mia vita, viene scandito in maniera abbastanza lenta. Rispetto alle cose che ho fatto e ritrovo nelle scatole, mi rendo conto che è passato davvero tanto da una scatola all’altra. Lì dentro trovo cose che avevo dimenticato di aver messo lì, e anche sensazioni che credevo di non riuscire più a trovare. Sono viaggi bellissimi, spero che finiscano: l’anno scorso ho traslocato per l’ultima volta. Ma anche il fatto delle scatole ha a che fare con l’equilibrio di cui parlavamo: il posto dove stai meglio è qua (si indica la testa). Se stai bene qui, stai bene in qualsiasi casa. Io ho sempre cambiato perché c’era qualcosa che non andava, che poi riflettevo anche all’esterno.”

Cosa farai a febbraio? C’è l’idea di Sanremo?

“Sanremo mi terrorizza a livello fisico. Sono stato traumatizzato da Sanremo e me ne rendo conto quando vado a Domenica In o in un’altra trasmissione: appena sono nel backstage e devo cantare dal vivo, penso sempre a Sanremo. C’è quella parte di me che dice: ‘Se già hai paura così, pensa nel backstage dell’Ariston cosa ti succederebbe’. Io lo nascondo, ma è una cosa che mi fa paura. A parte questo, dovrei prepararmi psicologicamente. È cambiato molto: è diventato sempre più uno spettacolo televisivo e ha sempre meno a che fare con la gara canora della tradizione italiana. Questa cosa mi spaventa: ho la sensazione — e correggetemi se sbaglio — che non basti più la bella canzone. Se oggi scrivessi Pensa o Portami via o Non mi avete fatto niente, che sono tre canzoni che mi hanno cambiato la carriera, non basterebbero più per fare Sanremo. Ci vorrebbe un compromesso — scusate la parola — tra il Festival di oggi e il Fabrizio Moro di oggi. Se trovassi quest’idea, certo che tornerei a Sanremo. La proporrei subito, a Carlo Conti o al prossimo direttore artistico. Per ora non ce l’ho.”

Che ricordo hai di Pippo Baudo nel 2007?

“Ne ho diversi. Per un periodo abbiamo anche continuato a sentirci. Nella vita sono fondamentali le persone che ti aiutano quando ne hai bisogno. Io purtroppo sono un tipo vendicativo — da calabrese — e quando ho avuto bisogno ho chiesto aiuto pochissime volte, perché sono molto orgoglioso. Ci sono stati momenti in cui avevo veramente bisogno, e le persone che non mi hanno dato una mano me le sono legate al dito. Non riesco ad essere leggero su questo, perché ho sofferto molto. Quelle persone me le ricordo con altrettanto amore: mi taglierei un braccio per loro. Le ho tatuate tutte qui sul braccio. Uno di questi è stato lui, Pippo. Ho trovato il produttore, il manager, il musicista che ha lavorato gratis all’inizio… tutte persone che amo. Ma poi c’è la persona di potere che arriva, ti prende e ti dà la possibilità di portare avanti la tua vita: è un’altra cosa. La persona di potere non sempre ha questa accortezza. Spesso dice: ‘Sai che c’è? Questo sti cazzi, andiamo da quell’altro’. Pippo invece no. Pippo è stato una persona di potere che ha dedicato parte del suo potere a chi da solo non ce la faceva. Per me è stato un grande. Quando è morto… io non amo andare ai funerali. Ma per lui sì: sono voluto stare vicino fino all’ultimo momento, da solo. Perché è la persona che mi ha permesso di essere qui oggi, in mezzo a voi, a raccontare le mie cose. Questa cosa non me la dimenticherò mai. Così come non dimenticherò le persone che mi hanno aiutato e — dall’altra parte — quelle che mi hanno fatto male.”

Hai parlato anche di frustrazione: quella di non essere più considerato come un tempo. Come la gestisci?

La frustrazione di non essere più considerato come all’ultimo Sanremo o come quello che fa il pezzo di successo… mi accompagna. Mi sono sempre sentito un combattente. Questo è un mondo futile: quando va tutto bene salgono tutti sul carro, quando va male salgono in pochi. È vero. Ne ho avuti tanti, di momenti di down. La frustrazione e la rabbia che provavo — secondo me legate anche all’estrazione sociale, al carattere, a quello che ho vissuto — mi hanno dato modo di allarmarmi e riaccendere le micce che si erano spente.”

Come alimenti oggi la creatività?

Con la voglia di non mollare. Lo so, sembra semplice e scontato, ma è così. Ai ragazzi che vogliono fare i cantautori e mi mandano i pezzi, dico sempre: non sono solo i pezzi. Non serve solo il 50% di talento. Ci sono anche il 40% di determinazione e il 10% di fortuna. Questo è un mestiere: la canzone è importantissima, certo, ma nel backstage di questo lavoro c’è tutto il resto. Ci sono momenti in cui non veniamo considerati da nessuno: il direttore della Rai ti dice ‘non c’è spazio’, il programma televisivo sembra amico e poi ti dice ‘esce anche quell’altro, vieni la settimana prossima’. E tu lo mandi a quel paese, e ti viene voglia di mollare. Quando passi la vita ad aspettare la chiamata del direttore artistico… poi ti stanchi. Ed è lì che devi non mollare: è quella la differenza tra chi resta e chi molla. La gente grande come Vasco , Ligabue, Zucchero non è lì per caso: non solo perché hanno scritto belle canzoni, ma perché sono gente forte. Io cerco sempre di spiegarlo ai ragazzi: ‘Sono bravo a scrivere canzoni’, mi dicono. E io rispondo: ‘Amico mio, questo non basta’.”

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