Nel 2026 Jovanotti rimette il corpo in tour e il calendario in discussione. Altro che replica del PalaJova: dopo i 600.000 spettatori chiusi nei palazzetti, l’asticella si sposta ancora più in là. L’ARCA DI LORÉ non è solo un nuovo giro di concerti, è il tentativo di trasformare la tournée in un racconto continuo, dove palco, bici e città attraversate fanno parte della stessa storia. Una storia che parte dal mondo e finisce – per ora – al Circo Massimo, con Jova al Massimo, data finale del 12 settembre 2026 a Roma.
L’idea è questa: Lorenzo viaggia, pedala, suona, incontra persone, mescola formati. Ogni tappa è un frammento di un racconto più grande. Un po’ Cantagiro anni ’60, un po’ cicloturismo 2026, con il JOVAGIRO a tenere insieme tutto: gli spostamenti tra un concerto e l’altro li farà in bici, come se ogni arrivo fosse il finale di tappa di un Giro d’Italia emotivo. Niente jet privati, ma chilometri su due ruote, in un’Italia che troppo spesso vedi solo dal finestrino dell’auto.
Prima però c’è il giro largo: Australia, Congo, Croazia, Germania, Austria, Spagna, Svizzera, Liechtenstein. Festival scelti non per la foto di rito con il main stage, ma perché sono luoghi dove la musica è ancora laboratorio, non solo prodotto finito: Montreux, Cruïlla, anfiteatri romani affacciati sul mare, parchi urbani trasformati in playground sonori. L’Arca, prima di tornare a casa, si sporca le mani con la musica degli altri.
Poi l’approdo in Italia con il Jova Summer Party 2026: Olbia, Montesilvano, Barletta, Catanzaro, Palermo, Napoli, fino alla chiusura al Circo Massimo. Sud, periferie, ippodromi, aree industriali dismesse: posti che di solito vedono la musica live passare da lontano. Qui diventano piazze temporanee, città parallele dove per un giorno intero si balla, si mangia, si scoprono artisti internazionali e realtà locali messe nello stesso cartellone.
Al centro di tutto, una band che sembra più una comune creativa che un semplice “gruppo di accompagnamento”. Sul palco con Jovanotti ci sono storici compagni come Saturnino al bassoInstagram+1, Adriano Viterbini alle chitarre, una sezione fiati costruita da Gianluca Petrella, percussioni afro, tastiere analogiche ed elettroniche, cori che spingono più di qualunque base. L’Arca è pensata per cambiare forma ogni sera: formazione ridotta per i momenti più intimi, orchestra festosa e allargata quando il format torna quello del party totale. L’idea di fondo è chiara: la band non “accompagna” Jova, è parte dell’ecosistema che tiene vivo il viaggio.
Dentro questa macchina in movimento c’è anche un disco nuovo, NIUIORCHERUBINI, registrato a New York in sei giorni di jam, su nastro analogico, senza sovraincisioni né correzioni. Produzione di Lorenzo con Federico Nardelli, e la benedizione latina del maestro Oscar Hernandez per la versione salsa dura di Senza se e senza ma. Un album che, sulla carta, sembra tutto ciò che oggi l’industria sconsiglia: istintivo, poco levigato, allergico all’idea di “perfezione” da playlist. Ma proprio per questo coerente con un tour che rimette al centro il rischio, l’imprevisto, la possibilità che una canzone nasca diversa a ogni città.
C’è anche il capitolo sostenibilità, che qui non è solo parola chiave da report: dopo il PalaJova 2025 – primo show in Italia ad abbattere più emissioni di quante ne producesse per la logistica – il progetto si allarga al Jova Summer Party 2026, con energia 100% rinnovabile, alimentatori mobili a biometano, gestione rifiuti pensata per ridurre l’impatto e trasformare il riciclo in progetti di economia circolare. L’idea è che la festa non sia una parentesi ecologica, ma un test su larga scala di come potrebbe funzionare un grande evento musicale se prendesse sul serio la parola “impatto”.
Alla fine, L’ARCA DI LORÉ sembra questo: un artista sessantenne che si ostina a comportarsi come un esordiente curioso, pronto a rimettere in discussione formato, logistica, linguaggio. Un tour che non promette solo “il concerto della vita”, ma un work in progress collettivo tra chi sale sull’Arca e chi se la guarda passare sotto casa. La domanda vera, forse, è un’altra: quanto siamo ancora disposti a farci muovere – fisicamente, emotivamente, politicamente – da una canzone e da una bici che punta ostinata verso Roma?









