I grigi e le ombre di Asaf Avidan

da | Ott 29, 2025 | #Cromosomiintour

Parole che raccontano vita e tormenti, una voce che mette i brividi in ogni nota. Un concerto emotivamente impegnativo.

Viviamo in tempi assurdi, scuri e cattivi. 

La colpa non è degli artisti, né tantomeno del pubblico. Ma gli effetti di questi tempi influenzano inevitabilmente sia chi è sul palco che chi è sotto.

Capita quindi che il solo fatto di essere nato ad una certa longitudine e latitudine possa far traballare le coscienze di un pubblico affezionato. Succede anche questo, quando c’è un governo che decide che poco lontano da quella stessa longitudine e latitudine ci debbano essere morte e devastazione.

Sono tempi in cui una sorta di disclaimer sembra doveroso. Fortunatamente la sensibilità e l’intelligenza di Asaf Avidan sono più efficaci di qualsiasi sproloquio e arrivano in soccorso delle coscienze e della cronaca.

Nel 2015 aveva deciso di traferirsi proprio in Italia e queste sue parole nel corso del tempo possono aiutare a comprendere meglio chi è Asaf:

Il concerto di Asaf Avidan all’Alcatraz

“This concert has the aroma of smoky whiskey” annuncia Asaf Avidan mentre versa un bicchiere a tutta la sua band per brindare con loro. Le luci sono studiate per esaltare le ombre, per osservare la sagoma di Asaf e ricordarci l’importanza di ciò che non si vede.

Sarà la somiglianza con Cillian Murphy, sarà l’affascinante estetica anni ‘20, ma di colpo ci si sente dentro al Garrison Pub.

L’atmosfera ci porta altrove, ci fa sentire in un tempo lontano e sospeso. Un tempo perfetto per scavare nei tormenti dell’anima guidati dai brani graffianti di Asaf.

La sua voce ruvida riesce a raschiare via strati di confortevoli certezze accumulati negli anni, riportandoci all’ultima volta che abbiamo voluto guardarci dentro.

La qualità di Asaf Avidan dal vivo non fa notare differenze rispetto alla sala di registrazione. La differenza la fanno invece i discorsi che di tanto in tanto accompagnano le canzoni.

“Not In Vain” viene presentata così:

Sconvolte e impaurite, le persone cedono a un bisogno infantile, a un bisogno giovanile di conforto nel binario, nel contrasto. Cominciano a parlare in bianco e nero. Cominciano a parlare in buono e cattivo, noi e loro, mettendo mattone dopo mattone di un linguaggio binario, e costruiscono un muro che diventa invalicabile.

E devi scegliere: sei da questa parte o da quest’altra, uno o zero? E dimentichiamo che tra quei due poli esiste un intero spettro. E molte persone, in questi tempi spaventosi, mi scrivono sui social, in messaggi diretti. Mi dicono: “Asaf, vengo al tuo concerto domani. Ho bisogno di queste due ore di evasione. Ho bisogno di fuggire da tutto. Spegnere tutto, disconnettermi, e semplicemente esserci.”

Ma non è questo che stiamo facendo qui stasera. Perché la musica, la cosa meravigliosa della musica, è che non è mai un linguaggio binario. Non è mai il linguaggio del bianco e nero.

È sempre un linguaggio di grigi. Ed è così perché è un linguaggio traducibile. E ciò che intendo dire è che la canzone che canto non è la canzone che tu ascolti.

Ognuno di voi, anime meravigliose qui presenti stasera, ascolta la propria versione di quella canzone. Essa cade sulle vostre splendide terre interiori, sulle vostre topografie personali, e trova la sua strada, scorre, crea fiumi nelle vostre valli, e poi trova, trova le crepe nascoste della vostra carne indurita, secca, protettiva. E gocciola e risuona nella caverna più profonda della vostra anima.

Questo è ciò che è l’arte. Questa è la forza dell’arte, se la usiamo non come evasione, ma come introspezione: una pala per scavare dentro noi stessi. Scuotiamo la pelle, tagliamo la carne, seguiamo le ossa fino al midollo e oltre, finché non troviamo quella caverna nascosta.

E ognuno di noi ha una caverna diversa, un’anima diversa, scolpita da anni e anni di esperienze, di amore, di speranza, di dolore, di sogni, di perdita, di perdita, di perdita, di tanta perdita. E risuona in modo diverso per ognuno di noi proprio per questo. E così ci permette di vedere l’infinito dentro di noi.

Perché ogni giorno la canzone che canto non è nemmeno la canzone che ho scritto, non è la canzone che ho cantato ieri, è solo uno strumento per trovare l’emozione di oggi. E l’emozione è sempre in movimento, è nebulosa, è una nuvola, e non si può mai fissarla del tutto. Questo è il sé, questo è lo spettro della psiche umana, l’esperienza di una vita consapevole.

E se possiamo vedere tutto questo dentro di noi, se possiamo trovare quella complessità, quell’infinità, quel “non binario” dentro di noi, se possiamo trovarlo, allora forse possiamo accettarlo e imparare a vivere con la complessità dell’essere complessi, a portarne il peso su di noi. E se possiamo farlo con noi stessi, forse poi potremo estenderlo anche verso un altro. Forse potremo allargare quel cerchio fino a includere qualcun altro, questa è l’empatia.

E forse, attraverso l’empatia, possiamo creare comprensione. E forse, attraverso la comprensione, possiamo creare un dialogo. E forse, attraverso il dialogo, potremo creare la convivenza. E allora il personale diventa politico. Più scavi dentro te stesso, più trovi la capacità di comprendere la complessità dell’altro.

Ed è questo il nostro viaggio, stasera.

Dopo la meraviglia di “Love it or leave it”, è tempo della canzone più famosa di Asaf Avidan, “Reckoning Song”. Abbiamo anche la fortuna di ascoltare la storia che sta dietro a questo brano, e non solo:

Spesso viene tradotta come una canzone di speranza. Cogli l’attimo. Non sai mai cosa ti porterà il domani.

Carpe diem. Facciamo festa. Certo, perché no?

Ma per stasera voglio provare una traduzione diversa.

Voglio provare la mia traduzione. Solo per stasera.

Vedi, per me questa canzone non parlava di “un giorno tutto avrà senso, quindi oggi devo vivere la mia vita”.

Non era questo.

Parlava del sapere che qualcosa era finito e che non l’avrei mai, mai più riavuto indietro.

E mi immaginavo me stesso, anni dopo quel momento, con il peso del rimpianto, di quella consapevolezza.

E ricordo il giorno in cui la scrissi.

Ricordo la conversazione che ebbi con la donna per cui l’avevo scritta.

Eravamo seduti sul pavimento, quel pavimento di legno che avevo nel mio appartamento.

E parlammo.

E ricordo che dissi qualcosa, e ricordo che lei rispose qualcosa, e ricordo che dissi ancora qualcosa.

E ricordo lo sguardo nei suoi occhi quando dissi quella cosa.

E provai a riprendermela, ma non c’è modo di riprendersi certe parole una volta che sono là fuori.

Alcune parole, certe parole.

E vidi nei suoi occhi una bambina che si spezzava in più pezzi di quanti ne avesse mai avuti.

E vidi che forse voleva dire qualcosa, ma non lo fece.

Si alzò soltanto, fece pochi passi verso la porta.

E giuro che ci fu una piccola pausa.

Giuro che la vidi nelle sue spalle, nella sua schiena:

una frazione di secondo in cui mi lasciò quel piccolo spazio per dire “Ehi, aspetta”.

Ma non lo dissi.

Rimasi semplicemente lì, seduto di nuovo sul pavimento.

E lei continuò. Aprì la porta, attraversò la soglia e la richiuse.

E io caddi sul pavimento in quell’istante, con l’orecchio poggiato sul legno,

e potevo sentire i suoi passi leggeri riverberare attraverso il pavimento,

lontano, lontano, sempre più lontano dalla mia vita, per sempre.

E in quel momento seppi che qualunque cosa fossimo stati,

qualunque amore, qualunque continente avessimo costruito insieme,

si stava spaccando. Placche tettoniche che per sempre avrebbero creato due isole separate.

E così, ora non la canto più per lei. È lontana anni luce, miliardi di anni luce.

La canto per la perdita.

È una canzone sull’amore, sulla perdita, sul rimpianto, sul dolore.

E il mio segreto è trovare questa perdita e guardarla negli occhi,

accettarla per ciò che è.

Non cercare di nasconderla.

E voglio che proviate a immaginare, con gli occhi della mente, con il cuore,

provate a immaginare qualcosa, qualcuno, una persona che avete perso.

Provate davvero a vederla.

Com’è vestita? Ha cambiato i capelli nel frattempo?

No, provate davvero a vederla.

Provate a vedere davvero come vi sta guardando.

Cosa vi dicono i suoi occhi?

Vi guardano con rimpianto? Con dolore? Con empatia? Con comprensione?

Con perdono? Con rabbia? Con amore? Con tenerezza? Con odio?

Cosa vedete?

Ora, la canteremo di nuovo da qui.

E il segreto non è non cedere alla mancanza di sentimento. All’assenza di sentire.

Noi sentiremo la perdita.

Vivremo la perdita, il dolore, la malinconia, la nostalgia, tutto, tutto ciò che affonda le radici nella nostra anima.

Lo sentiremo.

E diremo: va bene.

Siamo fragili. Siamo piccoli. Siamo spezzati.

Va bene così.

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