Guarda le luci, amore mio: l’arte di osservare il presente secondo Dutch Nazari

da | Ott 11, 2025 | Digital Cover

Nel suo quinto album in studio, pubblicato il 3 ottobre per Woodworm, Dutch Nazari propone un'opera che intreccia critica sociale e suggestioni letterarie. Muovendosi tra rap e cantautorato, riflette sul presente, sul consumismo e sul ruolo dell’arte nella società contemporanea. Un filo conduttore unisce riferimenti che spaziano da Fabri Fibra al premio Nobel Annie Ernaux, confermando Dutch Nazari come una delle voci più lucide e consapevoli della scena musicale attuale.

C’è un carrello che non riesce a salire, le ruote bloccate su un terreno che non scorre. Intorno, tutti fingono che basti spingere un po’ più forte per superare un ostacolo oggettivamente insormontabile. È da questa immagine di copertina – surreale e lucidissima – che prende forma Guarda le luci, amore mio, il nuovo disco di Dutch Nazari, “cantautorap” (citando il collega Dargen D’Amico) tra le penne più raffinate della musica italiana contemporanea.

Un lavoro – uscito il 3 ottobre per l’etichetta Woodworm – che intreccia osservazione sociale e introspezione personale, che si muove tra impegno e ironia, tra letteratura e beat, senza mai perdere l’equilibrio o i propri punti focali. Il titolo è un omaggio a un libro di Annie Ernaux, ma anche un invito implicito a guardarsi attorno per davvero, senza lasciarsi accecare dalle luci, che qui sono quelle del consumismo, dei riflettori che tutto trasformano in prodotto. Eppure, in mezzo a tutte queste vetrine, Dutch cerca ancora una forma di autenticità, di resistenza.

Attraversa il presente con uno sguardo analitico e narrativo al tempo stesso. Nei suoi testi la politica si intreccia alla quotidianità, i romanzi diventano strofe e l’arte si misura continuamente – e inevitabilmente – con il mercato. Ma è proprio nel calore della voce, nel gesto ostinato e capace di continuare a scrivere e raccontare, che si nasconde una forma ultima di sopravvivenza all’alienazione.  

Mi piacerebbe partire dal titolo del disco, tratto da un bellissimo libro di Annie Ernaux. Come ci sei arrivato?

Ci sono arrivato un po’ per caso, tramite la bibliografia di un altro libro molto importante per me – uno di quelli che rileggi ogni cinque o sei anni e ogni volta ci trovi qualcosa di nuovo. È Arte di ascoltare i mondi possibili di Marianella Sclavi, una professoressa di fenomenologia del territorio. All’interno del libro si parla anche di Guarda le luci, amore mio, e quindi, l’ultima volta che ho riletto Sclavi, avevano appena assegnato il Nobel per la Letteratura ad Ernaux ed ho deciso di recuperarlo. 

Cosa ti ha colpito di quella lettura?

Il libro è fatto delle osservazioni che nascono ad Ernaux quando si trova nei grandi supermercati. E io, in qualche modo, sto facendo una cosa simile: descrivo, denunciandola, una realtà che commercializza sempre di più tutto. Una realtà in cui ogni cosa diventa mercato, ogni cosa è pubblicizzata. E mi è sembrato che il modo in cui lei racconta l’esperienza del supermercato fosse molto vicino a ciò che stavo cercando di fare anch’io: scrivere le mie osservazioni in quel contesto.

Tu come vivi tu questa dicotomia d’intenti, tra fare arte e vendere un prodotto commerciale?

È un conflitto che sento particolarmente, figlio di quella commercializzazione eccessiva dell’arte di cui parlavamo prima. L’arte oggi può essere 50% arte e 50% prodotto commerciale, ma anche 30% e 70%, o viceversa. È un equilibrio difficile, che cerco di stabilire a modo mio.

Nella copertina spingi un carrello. È evidente, per l’appunto, il riferimento al consumismo, ma c’è anche l’immagine di un carico che spingi ma non riesci a portare in avanti. 

La copertina, secondo me, funziona un po’ come una macchia di Rorschach: ci puoi vedere quello che vuoi. Ma la mia idea era questa: c’è una salita, e il suolo ha una consistenza per cui le ruote del carrello non girano, perciò è bloccato, non può andare avanti. E i personaggi stanno fingendo che invece si possa. Si illudono che basti spingere ancora un po’ per arrivare in cima. Ma non è così. E quindi forse bisogna trovare un’altra strada, magari lasciare il carrello lì, e andare avanti in un altro modo.

È una metafora della società?

Sì, in generale. A me, quando si parla di politica, interessano più i sistemi che i singoli individui. E questo sistema, che si illude di farcela, se rimane così com’è, non può andare avanti. Bisogna cambiare qualcosa.

Il tuo modo di scrivere canzoni è spesso letterario. Era già successo che la letteratura ispirasse la tua musica?

Sai, un po’ di tempo fa stavo riflettendo su come mi sono trovato nel mondo della musica. E ho pensato che ci sono entrato con un approccio letterario: è stato più un discorso di scrittura che musicale in senso stretto. Un po’ come chi ha iniziato coi Poetry Slam, rispetto a chi, che so, ha iniziato suonando l’ocarina in una banda. I romanzi sono una delle fonti principali da cui traggo ispirazione.

Qualche esempio?

C’è una canzone nel disco, Tutte le direzioni, dove dico:
“Guardo fuori dalla tua finestra,
lentamente il sole che tramonta,
come un vecchio che per prudenza
mette bene in piedi un gradino alla volta.”
Questa immagine l’ho letta in un romanzo di Fenoglio, credo fosse Una questione privata.

Nella title track dici “nei discorsi si mischia l’attualità da Atoyallah a Matteo Berrettini”. Come gestisci la coesistenza di impegno politico e introspezione nei tuoi testi?

Per me è abbastanza naturale. Il privato e il pubblico si mescolano in quello che scrivo, ma spesso è il privato che diventa un pretesto per parlare del pubblico, più che il contrario.

Secondo te, la musica deve trasmettere qualcosa o può limitarsi all’intrattenimento puro?

Per quanto riguarda me, non mi verrebbero in mente modi più incisivi di fare musica, se non quello di metterci in mezzo la politica, l’attualità. C’è un rapporto dialettico inscindibile tra chi si esprime con l’arte e la società cui ci si rivolge. 

Quindi pensi gli artisti abbiano il dovere morale di esprimersi?

Se uno ha qualcosa da dire ed è informato, è giusto che lo faccia. Anzi, ben venga, avremmo fatto jackpot. Se più artisti lo facessero, avremmo più arte significativa e bella. Ma se non sai di cosa stai parlando, o ti informi bene, o forse è meglio parlare d’altro. Poi, secondo me, ci sono temi su cui non si può restare zitti, ed il genocidio palestinese è uno di questi: bisogna che se ne parli sempre, ma bisogna studiare molto bene, prima di parlarne.

Ti senti una voce fuori dal coro nel panorama attuale?

No, non mi ci definirei. 

@ Elisa Modesti

Che cos’è la musica per te? 

È qualcosa che ascolto, che mi ispira. C’è qualcosa di negativo  che prende fuoco dentro di me, e riesco a trasformarlo in parole, fino a farlo diventare anche, in qualche modo, qualcosa di positivo. Poi c’è anche il desiderio di restituire questo effetto a chi ascolta. Fare per gli altri quello che la musica ha fatto per me.

Alcuni ti definiscono cantautore, altri rapper. Anche in questo c’è una pluralità di visioni.

Cantautorapper è una definizione che ha coniato Dargen, e ci sta. Oggi mi sembra che si accostino con meno imbarazzo questi due mondi. All’inizio sembrava ci fosse una frattura netta. Ora invece si accetta che si possa anche vivere in mezzo.

Ti infastidisce essere etichettato, in qualche modo?

Credo che le etichette possano aiutare, se usate bene. Servono a farsi un’idea. Ma bisogna anche sapere che sono semplificazioni. Non bisogna fermarsi lì: poi bisogna approfondire.

Cosa ascolti oggi e cosa avevi nell’mp3 da bambino?

Oggi ascolto tante cose diverse. Quest’estate, per esempio, ho scoperto la musica di Faccianuvola, e mi sta piacendo molto. Quando ero piccolo, invece, scaricavo da BearShare e eMule qualsiasi cosa di rap italiano trovassi e la mettevo nella mia chiavetta Creative Zen. Poi ricordo di una lezione al liceo in cui, dato che ero particolarmente annoiato avevo chiesto a un compagno di banco di passarmi l’iPod, e lui aveva Mr. Simpatia di Fibra scaricato. L’ho trovato illuminante.

Pensi che quel primo ascolto di Mr. Simpatia possa aver influito sulla tua decisione di fare musica nella vita?

Assolutamente sì. C’è stato un prima e un dopo. Da lì in poi mi sono appassionato al genere hip hop, poi al movimento culturale: ho conosciuto amici con cui poi ho fatto musica, e con cui sono ancora in contatto. Se non fosse stato per quel momento, forse oggi non saremmo qui a parlare.

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