“Il male” secondo gli Zen Circus

da | Ott 2, 2025 | Recensioni album

Gli Zen Circus firmano Il male, un album crudo e senza compromessi.

Con Il Male, album uscito il 25 settembre, gli Zen Circus tornano a ribadire la loro vocazione di band “scomoda” e necessaria. Non cercano di piacere a tutti: al contrario, scelgono di scavare nella carne viva del presente, puntando il dito su ipocrisie, vizi e ferite collettive. Sono 37 minuti di rock abrasivo e cantautorato disilluso, con qualche apertura melodica che amplifica – invece di smussare – la tensione.

Il brano d’apertura e title track, “Il male” è un manifesto programmatico: guardare il marcio senza più ironia di comodo. Il cuore puzza perché si è venduto, e il male è dentro di noi, cattivo come il cancro. Ma è comunque preferibile all’ipocrisia di un bene artificiale. 

Il secondo brano è “Miao”: dietro la veste leggera si cela una delle riflessioni più velenose del disco. “Miao” diventa onomatopea di dipendenze e automatismi, un miagolio che ci rende animali domestici della società dei consumi. L’ironia amara degli Zen Circus penetra in questo brano fatto di attese, inadeguatezza e gatti randagi.

“È solo un momento” è una delle tracce che conserva meglio quella malinconia corrosiva che è marchio di fabbrica della band. Dietro il semplice giro di chitarra si nasconde la consapevolezza che ogni momento lascia cicatric, in un pezzo che parla di solitudini, di rabbia e di lati oscuri. “I miei vent’anni sono volati mentre sussurravo al vento: è solo un momento”. Forse, un momento che dura tutta la vita. 

Il male: la rabbia necessaria degli Zen Circus

Partendo da un bicchiere di Braulio, con “Meglio di niente” si entra in una dimensione quasi ballad, ma senza indulgenze. Gli Zen prendono di mira l’autoinganno della rassegnazione: accontentarsi del poco, ripetere che “meglio di niente” diventa un anestetico sociale. Qualcuno se ne va e quello che rimane è un vuoto allucinante,  oggetti ancora pregni di significati e ricordi dolorosi e indelebili. L’assenza diventa protagonista in una casa ormai vuota.  

“Novecento” è la traccia della memoria e della storia. Evoca odori, luoghi, figure del secolo scorso, restituendo un ritratto personale e politico allo stesso tempo. È una canzone che guarda indietro senza nostalgia: il Novecento non è mitizzato, ma raccontato come un secolo ferito e ingombrante. Tutti i mali del Novecento sono racchiusi nel pezzo, che si chiude con immagini di vergogna e di morte.

Con “Caronte” si apre una ballata morbida ma estremamente malinconica: un flusso di coscienza in cui si accumula un susseguirsi di ricordi e riflessioni. Corpo e mente viaggiano separati, la barca di Caronte attende, mentre si cerca di distinguere tra mal di mare, mal di cuore, o semplicemente troppa vodka. 

“Vecchie troie”, brano dal titolo volutamente scandaloso, introduce una satira generazionale feroce, piena di invettive “da anziano”. Qui gli Zen smontano narcisismi e autocompiacimenti dei “cresciuti male”, prendendo in giro soprattutto se stessi e la propria scena. Un pezzo oggettivamente divertente che contiene una gran quantità di rancore, che esplode a partire da un ragazzino che ti chiama “signore”.

“Un milione di anni” è una delle canzoni più intense del disco. Arpeggi e un cantato più disteso aprono una riflessione sulla relatività del tempo: in un milione di anni, tutto ciò che ci agita oggi perde consistenza. Un grido disperato, il desiderio di superare il tempo ed essere ricordati, anche tra un milione di anni. 

Un disco che è specchio della nostra epoca

Con “Virale” un affondo contro la dittatura dei social e della visibilità. Con ritmo serrato e testo incalzante, mette in scena il bisogno malato di diventare “virali”. Non c’è moralismo, piuttosto una crudele constatazione: il male si vende e si compra come un contenuto qualsiasi, cio che è veramente “Virale” è la noia mortale. 

Un cambio di tono con “Adesso e qui”: più lirico, più intimo. Il presente viene messo a nudo, mostrato come campo minato. Un racconto fatto di ricordi profondi d’infanzia, di dolore, di contraddizioni, di perdite e di ferite non arginate. La verità è che nessuno capisce niente della vita, e nel frattempo la rabbia esplode. 

L’ultima traccia, “La fine”, è il brano che più intensamente riflette il velo nostalgico che caratterizza tutto il disco. Se prima faceva da sfondo, qui la nostalgia diventa protagonista: il male, che prima era declinato in molteplici sfaccettature, ora è totalizzante. “La fine” non è solo del disco, ma è anche a quella che fanno gli ideali: in una lettera ad un amico, il ricordo di una gioventù che è stata spazzata via da “Il male”, che ormai ha preso il sopravvento. 

Gli Zen Circus si confermano una delle band più oneste e radicali della scena italiana: ci mettono davanti uno specchio deformante e brutale, chiedendoci di avere il coraggio di guardarci dentro. Il male è un disco necessario, proprio perché scomodo.

La Playlist di Cromosomi