Quello che accomuna i grandi artisti è la capacità di trasformare il processo creativo in una vera e propria firma stilistica. Non solo voce, non solo testi: ma una visione del mondo, un linguaggio unico che vede la creatività dar forma alla musica.
Esploriamo il percorso di sei cantanti — italiani e internazionali — che hanno fatto del loro processo creativo una parte fondamentale della loro arte.
Franco Battiato
Franco Battiato era molto più di un cantautore: era un filosofo in musica.
Il suo processo creativo partiva spesso dalla lettura di testi esoterici, mistici o filosofici. Negli anni ’70 ha esplorato territori sperimentali, ma è tra la fine del decennio e l’inizio degli anni ’80 che raggiunge un equilibrio raro tra sperimentazione e accessibilità.
Album come “La voce del padrone” (1981) e “Fisiognomica” (1988) mostrano una scrittura colta ma diretta, dove il senso profondo si nasconde tra riferimenti orientali, elettronica, pop e ironia. Il suo metodo era sincretico: mescolava alto e basso, sacro e profano, come in un collage spirituale.
Björk
Björk ha sempre visto la musica come un’estensione del corpo e della natura. Ogni suo album è costruito come un mondo a sé, con regole e logiche interne diverse.
In “Biophilia” (2011) scrive musica ispirandosi a fenomeni naturali, utilizzando scale musicali basate sulla rotazione dei pianeti o sulla struttura delle cellule. In “Vulnicura” (2015) affronta il dolore personale attraverso arrangiamenti orchestrali e paesaggi sonori digitali. Il suo processo creativo è istintivo, ma sostenuto da una progettualità minuziosa. Crea strumenti appositi, lavora con programmatori, registi e artisti visivi: ogni pezzo è un organismo vivo.
Lucio Dalla
Lucio Dalla era un istintivo, capace di scrivere brani memorabili in poche ore. Il suo modo di creare non seguiva uno schema preciso: si lasciava trasportare dalla curiosità, dal momento, dall’incontro.
“Caruso” (1986) è nato così, in una notte a Sorrento, ispirato da una storia ascoltata per caso. Ma anche canzoni come “Com’è profondo il mare” (1977) o “Anna e Marco” (1979) sono esempi di una scrittura capace di unire poesia, ironia e verità quotidiana. Dalla non cercava la perfezione formale: cercava l’autenticità. E la trovava spesso nel gioco, nell’improvvisazione, in quell’equilibrio precario tra leggerezza e profondità.
David Bowie
Pochi artisti hanno saputo cambiare pelle come David Bowie. Il suo processo creativo era basato sulla trasformazione costante, sull’idea che l’identità potesse essere reinventata a ogni progetto.
Ogni personaggio — da Ziggy Stardust a The Thin White Duke — era il veicolo per esplorare un nuovo stile musicale, una nuova visione. Lavorava con metodi innovativi: usava la tecnica del cut-up per scrivere i testi, si circondava di collaboratori visionari come Brian Eno, si lasciava contaminare da arte, moda, teatro. Per Bowie, creare significava anche distruggere ciò che era venuto prima: era un alchimista del suono e dell’immagine in perenne metamorfosi.
Marracash
Con l’album “Persona” (2019), Marracash ha dato una svolta recente al modo di concepire un disco rap in Italia. Ogni brano rappresenta una parte del corpo e, simbolicamente, una parte della sua psiche.
Il lavoro di scrittura è profondo, quasi terapeutico: parla di ansia, successo, contraddizioni, relazioni tossiche. Marracash ha impiegato mesi per trovare la forma giusta, collaborando solo con artisti che sentiva affini, senza cedere alle logiche commerciali. Il risultato è un disco che somiglia più a un romanzo psicologico che a una raccolta di hit. Il suo processo creativo si è trasformato in un viaggio dentro sé stesso.
Thom Yorke
Il frontman dei Radiohead ha sempre cercato di allontanarsi dalla prevedibilità. Dopo il successo planetario di “OK Computer” (1997), Yorke ha abbracciato l’incertezza e l’elettronica come nuovi strumenti per esprimere ansia, alienazione, fragilità.
Ma già con “The Bends” (1995), secondo album dei Radiohead, il processo creativo di Thom Yorke ha cominciato a farsi più complesso e consapevole. Durante la lavorazione, Yorke ha attraversa una fase di forte pressione psicologica: da una parte il timore di essere ricordato solo per “Creep”, dall’altra la ricerca di una voce autentica, capace di andare oltre il grunge e le mode del momento. Per il brano “Fake Plastic Trees”, Yorke stesso ha raccontato di essersi messo a piangere mentre registrava la propria voce, segno di un coinvolgimento emotivo profondo divenuto quasi fisico.
Che si parta da un impulso emotivo o da una visione filosofica, ogni artista ha un proprio modo di attraversare la creazione del proprio progetto musicale. Ognuno di loro ci ricorda che fare musica è anche — e soprattutto — un modo per esplorare chi siamo.