Silent Bob e Sick Budd: dentro le ferite di “ANGELO BALACLAVA”

da | Apr 7, 2025 | Digital Cover

Silent Bob non scrive canzoni, lascia cicatrici. Con “ANGELO BALACLAVA”, prodotto da Sick Budd, vaga tra notti tossiche, amori malati e rime affilate. Un disco che non consola: racconta.

Venerdì 4 aprile segna il ritorno di Silent Bob e Sick Budd con ANGELO BALACLAVA, il loro nuovo album pubblicato da Bullz Records in licenza esclusiva M.A.S.T./Believe. Un progetto denso, che raccoglie quindici tracce cucite addosso all’anima tormentata di uno dei rapper più autentici del momento. 

Il lavoro parte da lontano: dagli Stati Uniti, dove Silent Bob e Sick Budd hanno respirato strade, suoni e malinconie che si sono poi trasformati in barre, atmosfere, immagini. Ma è anche un ritorno alle radici: a quel dolore che non si cancella mai davvero, alla provincia che ti cresce a schiaffi, alla musica come unica via di fuga possibile.

La produzione è interamente firmata da Sick Budd, compagno di strada, di studio e di visione artistica, con cui Bob ha costruito negli anni un sodalizio fortissimo. Il risultato è un suono compatto ma sfaccettato, capace di tenere insieme jazz, blues, boom bap, trap e schegge elettroniche. Un sound che non insegue le mode, ma le sfida.

Sopravvivere al vuoto, vivere con le cicatrici

Il disco si apre con “ESSE B”. Silent Bob si presenta come un ordigno inesploso, il protagonista sfigurato di un brutto sogno collettivo. Racconta una vita in bilico tra l’autodistruzione e l’ambizione feroce,

Io volevo farmi fuori quella notte a luglio

Ma ho promesso a mio fratello di prendermi tutto”

C’è un dolore profondo che si traveste da arroganza, una fragilità che si esprime a colpi di Glock Vuitton, bugie da club e roulette russa con le droghe. Ma alla fine, se è ancora vivo, è solo per farci un torto. Lucido, disturbante, indimenticabile.

Segue “SIAMESI”. È la ballad dei reietti, una lettera d’amore fraterno in una lingua che non prevede sentimentalismi. Silent ci racconta l’amicizia più pura, quella nata senza parole sdolcinate ma saldata da pugni, risse, funerali condivisi e un giubbotto in due. Il ritratto del “fra” è poetico nella sua sporcizia: è chi c’era quando tutto crollava, anche quando le droghe prendevano il sopravvento. Il dolore non viene censurato, viene inciso sulla pelle. Il ritornello è un brindisi malinconico a chi resta anche quando se ne va.

Arriva “MILANO 3AM” dove l’amore è una presenza-assenza. Qui si guida per una Milano notturna, svuotata, mentre si cerca “lei” nei volti dei passanti. È un pezzo sull’ossessione post-relazione, sulla freddezza emotiva che si trasforma in status permanente

 “Tutto ha perso valore, 

tutto ha perso colore”

Il suo romanticismo è tossico, borderline, ma anche sinceramente umano. Tra foto di sfondo cambiate e la rabbia che prende il sopravvento, Bob ci ricorda che senza la sua regina, non sarà mai un re.

“WTF” è un rave di lusso e degrado, in cui si mescolano fumo nero e cocaina su uno schermo da cinquanta pollici. Il nonsense diventa linguaggio, l’assurdo si fa estetica: è l’eccesso senza rimorso, l’autoparodia di una generazione che ha confuso l’identità con l’Instagram story. “WTF” è uno shock: diverte e inquieta nello stesso istante.

L’amore come trauma nazionale

È “11 SETTEMBRE” una delle metafore più potenti: la donna amata diventa un trauma epocale. “Il mio 11 settembre”, dice, e non servono spiegazioni. È un pezzo in cui l’amore è trappola, veleno. La partner è tossica, sexy, autodistruttiva, eppure magnetica. Bob la odia, ma la desidera ancora. È il ritratto di una relazione tossica raccontata con cinismo: “Hai una bambola vudù nella pochette con il mio volto”. Più che una canzone, è una seduta di autoanalisi spinta all’estremo.

Una discesa nel gelo emotivo con “SENZA BRIVIDI”. Silent Bob è chiuso in una trap house, circondato da “simili” che come lui hanno smesso di provare qualcosa. La sua pelle non reagisce più, il cuore è anestetizzato, la fiducia sepolta sotto anni di botte emotive. 

Guardami ora baby, sei stata fentanyl 

Una microdose di te è bastata ad uccidermi” 

L’amore come overdose, la donna come sostanza letale. L’atmosfera è plumbea, claustrofobica. Nessun riscatto, solo la cronaca cruda di chi non sente più nulla.

La provincia che morde viene celebrata in “BIFOLCO”. Si rivendica con orgoglio le sue radici “rozze, grezze, borderline”. Niente palazzi, niente club esclusivi: solo bilancini, tute Armani, ski mask e l’odore acre della paranoia. È street rap vero, pieno di frasi da citare e immagini che sanno di verità. Nessun filtro, zero compromessi: SB si proclama “bifolco” e ce lo fa pesare in faccia, ubriaco in Duomo come fosse il suo regno.

Il romanticismo del disagio invece arriva in “GROSSISTA”. 

Non ricordavo neanche che oggi è il mio compleanno” 

Dimenticare tutto quando si ha un senso di vuoto e di auto-sabotaggio. Silent Bob racconta la sua testa come una piazza di spaccio, un luogo infestato da voci, demoni, ricordi e dipendenze. È un pezzo crudo ma intimissimo, in cui anche la nostalgia ha l’odore della coca e dei sedili di una BMW. Non c’è moralismo, solo la constatazione di quanto il male possa diventare routine. L’amore? Un grammo a cui si ritorna sempre, anche quando fa male.

Una giornata qualunque in una vita straordinariamente rotta: “DOMANI RITORNO”Dalla mattina in hangover nella casa di una sconosciuta, al Canada Goose stretto per contenere l’ansia, fino al bar, alla vodka pronta, ai buttafuori e al sangue sulle scarpe nuove: Silent Bob fotografa la depressione urbana in tempo reale. C’è un senso di rassegnazione poetica, ma anche un disperato bisogno di routine. Il suo “mama don’t cry, domani ritorno” è anche il mantra di chi cerca di sopravvivere a se stesso un giorno alla volta.

“MEDITERRANEO” è una punchline raffinata quanto tamarra, che racchiude la sua estetica da ladro di provincia diventato imprenditore di sé stesso. C’è lusso ostentato, rabbia compressa, fratellanza vera. Guè completa il quadro con un cameo alla sua altezza, tra whisky, Friskies e minacce da boss movie. Due generazioni diverse, ma lo stesso DNA criminal-poetico.

“TI AMO, MA…” è l’autoritratto disturbante di una relazione tossica, raccontata con la lucidità di chi sa di stare affogando ma continua a farsi legare. Silent Bob alterna fasi di rabbia brutale a confessioni strazianti, senza mai tentare di giustificarsi. 

Mi hai portato solo problemi, ma ne voglio ancora” 

È il cuore malato del pezzo: una dipendenza emotiva che si sovrappone a quella da droga, sesso, approvazione. Ma sotto lo strato di “minacce” e “violenza verbale”, c’è un uomo che non riesce a staccarsi da chi lo distrugge. Perché nel caos, ormai, si sente a casa.

Identità, disuguaglianza e redenzione

“FA PIANGERE MAMMA” è una dichiarazione d’amore verso la madre, l’unica figura che continua a preoccuparsi mentre tutto intorno crolla. Nelle sue rime, la fame si mescola all’orgoglio, la delinquenza al bisogno d’affetto. È l’epica dell’emarginato che non cerca redenzione, ma almeno pretende di essere capito.

“K-HOLE” feat. 18K è la traccia più alienata, oscura e psichedelica. Un K-hole è il buco nero mentale in cui si finisce dopo un’overdose di ketamina, e qui diventa metafora di uno stato esistenziale: isolamento, apatia, disillusione, desiderio di sparire. Silent Bob parla con un revolver, si dissocia dalla realtà, anestetizza ogni emozione. 18K fa uno storytelling allucinato, tra sogni spezzati e domande senza risposta. 

In “SOLO UN NOME” il racconto parte da una stazione, da un viaggio Sud-Nord, da un padre che ha sacrificato tutto, e si allarga all’amico arrivato dall’Africa “solo con un nome”. Il razzismo, la povertà, la disuguaglianza: tutto viene messo a nudo con parole dirette. 

Il disco si chiude dove tutto è cominciato: nel gelo emotivo di “SENZA BRIVIDI”, riproposta in una versione remix con Jeune Mort che aggiunge un ulteriore strato di disagio, rabbia e lucidità tagliente. È un finale amaro, senza catarsi. Nessun happy ending, nessuna luce in fondo al tunnel. Solo la consapevolezza che alcuni vuoti non si colmano, si raccontano.

Silent Bob e Sick Budd: il peso delle parole dette sottovoce

In occasione dell’uscita di ANGELO BALACLAVA, noi di Cromosomi abbiamo avuto il piacere di scambiare due chiacchiere con Silent Bob e Sick Budd. Una conversazione intensa ma sorprendentemente leggera, in cui abbiamo approfondito il processo creativo che ha dato vita al disco, tra notti insonni, beat cuciti addosso e la volontà di raccontare la verità anche quando fa male. 

ANGELO BALACLAVA è un disco impregnato di atmosfere e suggestioni americane. C’è un episodio o un momento preciso del vostro viaggio negli USA che ha lasciato un segno così forte da finire direttamente in un pezzo?

Silent Bob: In realtà il disco non nasce direttamente dal viaggio in America, è qualcosa che avevo già iniziato a maturare da prima. Poi però ho attraversato un blocco, non riuscivo più a esprimermi come volevo. Probabilmente ero troppo dentro alla mia comfort zone, bloccato in dinamiche che ormai non mi stimolavano più. Andare in America è stato un punto di svolta: era la prima volta che mi allontanavo davvero dal posto in cui sono cresciuto. Quel viaggio mi ha aperto gli orizzonti, non solo artisticamente ma anche a livello personale. Ha sbloccato tante cose che avevo dentro da più di un anno e che non riuscivo a tirare fuori. Mi serviva solo uno stimolo, uno scossone. E credo che il grande potere di quel viaggio sia stato proprio questo: mi ha dato l’energia e la scintilla per tornare e chiudere tutto il disco velocemente. In quel momento non riuscivo neanche a scrivere, perché ero immerso in tutto quello che stavo vivendo, al cento per cento. Ma quelle esperienze mi hanno caricato di vibes. Non è che ho raccontato esplicitamente ciò che ho visto o vissuto lì, ma forse si percepisce nei riferimenti, negli inglesismi che ho usato, in certi modi di dire. Quelle vibes, poi, le ho riportate nella mia realtà, a modo mio. Perché, in fondo, quello sono io.

Sick Budd: È stata la situazione e l’ambiente in cui ci siamo trovati più che gli episodi in sé

Il titolo dell’album unisce due concetti contrastanti: l’angelo e la balaclava, quasi come a rappresentare una doppia identità. Chi è l’“ANGELO BALACLAVA” e cosa rappresenta per voi?

Silent Bob: “Angelo” è il mio secondo nome, ma soprattutto è il nome di mio nonno. Nella mia famiglia, che viene dal Sud, c’è una forte tradizione: il primo figlio maschio prende il nome del nonno paterno. Per questo, è un nome che ha sempre avuto un grande valore affettivo per me, legato alla mia infanzia e alle mie radici. Oltre al significato simbolico della figura dell’angelo, nel mio caso rappresenta qualcosa di estremamente personale: la mia parte più pura, quella con cui sono venuto al mondo. In un certo senso, ‘Angelo’ è diventato uno pseudonimo, un modo per raccontare quella parte di me che ancora resiste al cinismo e alla durezza della vita. La parola “Balaclava”, invece, richiama tutta un’altra dimensione. È la maschera che, soprattutto in certi contesti più duri, sei quasi costretto a indossare per sopravvivere, per crescere, per crearti uno spazio. Non per forza con un’accezione negativa, ma come strumento di difesa. Oggi forse solo i folli riescono a restare puri, e allora per restare te stesso, a volte, devi nasconderti dietro qualcosa. Ecco, in questo disco c’è questa dualità: “Angelo” rappresenta la mia parte più emotiva e sincera, mentre “Balaclava”raccoglie quelle emozioni forti, crude, a tratti violente, che ti porti dietro quando affronti la realtà. È un equilibrio tra cuore e sopravvivenza.

Quindi il bambino della copertina saresti tu?

Silent Bob: Sì, quel bambino rappresenta me da piccolo. E l’angelo, che lo osserva, è come se stesse guardando verso il suo futuro, come a proteggerlo e indicargli la strada. È un’immagine simbolica molto forte per me. Crescendo in provincia, o in certi quartieri, succede spesso di diventare così tanto parte della strada da rimanerci dentro per sempre, come fossi una statua: immobile, scolpito nel contesto. Ed è proprio da lì che nasce l’idea della statua che guarda avanti, verso ciò che sarà. C’è anche un richiamo “nascosto” a uno dei nostri primi progetti: nel nostro primo EP, realizzato sempre con lo stesso grafico, c’era l’immagine di un bambino con le ali. Era un concept più “casalingo”, ma già allora esprimevamo questo tipo di messaggio. Ora abbiamo ripreso quell’idea, l’abbiamo fatta evolvere. Quel bambino è lo stesso: solo che oggi è diventato una statua, simbolo di tutto ciò che è stato e di ciò che verrà. Proiettato in avanti, come lo siamo noi con questo disco.

Jacopo, qual è stato il beat più difficile da costruire?

Sick Budd: Ripensandoci bene, ci sono stati due brani particolarmente complicati da portare a termine. Il primo è sicuramente “SIAMESI”. Era un pezzo che avevamo in mente da tempo, con un concept chiaro, forte, a cui tenevamo molto. Il problema, però, è stato trovare il beat giusto: ne abbiamo provati almeno cinque o sei, ma nessuno riusciva a restituire davvero l’emozione che volevamo trasmettere. Ogni volta sembrava che mancasse qualcosa, che non fosse “quello”. All’inizio pensi di avere la visione giusta, poi ti accorgi che non basta e che devi continuare a cercare finché non senti che tutto combacia. Alla fine, l’abbiamo trovato, e penso che quella fatica si senta nel risultato finale. Anche “GROSSISTA” non è stato semplice da chiudere. Di base, non sono un grande fan dei brani chitarra e voce, avevo paura che suonasse troppo pop, troppo “pulito” per quello che volevo dire. L’obiettivo era sporcargli addosso qualcosa, dargli un’identità forte, renderlo riconoscibile ma senza perdere autenticità. Dopo diversi tentativi, siamo riusciti a trovare la nostra formula, il nostro equilibrio. Ed è stato bello, perché alla fine quei pezzi che ti fanno tribolare sono spesso anche quelli che ti danno di più.

Come funziona la vostra collaborazione? Nasce prima il testo o il beat?

Silent BobA seconda della traccia, il metodo di lavoro cambiava. Anche perché in quel periodo ero piuttosto bloccato, quindi ho cercato di sperimentare approcci diversi rispetto al solito. Prima, il processo era più lineare: scrivevo un pezzo, poi lo portavo in studio con Bud e lo costruivamo insieme. Questa volta, invece, è successo anche il contrario: in certi casi partivamo dal beat, registravamo una prima versione e poi stravolgevamo tutto dopo, come è successo con “GROSSISTA”. In altri brani abbiamo fatto addirittura più versioni dello stesso pezzo prima di trovare quella giusta. Secondo me la verità è che ogni traccia ha avuto un percorso suo, unico. Ed è proprio questo che lo rende un disco diverso da tutto quello che abbiamo fatto prima. La parte più bella, alla fine, resta sempre l’incontro: magari io parto con un’idea dritta, precisa, ma poi quando ci troviamo in studio esce qualcosa che non avevamo previsto. Ed è lì che nasce davvero la nostra cifra, quella roba che riconosci come “nostra” e di nessun altro.

Sick Budd: Sì, molti brani nascono proprio da sue idee. Lui ha sempre un sacco di spunti, visioni musicali forti, e il mio obiettivo spesso è quello di raccogliere quelle suggestioni, reinterpretarle o anche metterle in discussione per creare qualcosa di nuovo. È un dialogo continuo. In alcuni casi, come per “MEDITERRANEO”. Passiamo tantissimo tempo insieme, e non solo a lavorare tecnicamente: spesso, semplicemente parlando, confrontandoci, nascono idee che poi diventano brani. La verità è che la nostra musica nasce proprio da lì: dal confronto, dall’alchimia tra due visioni che si incastrano e si completano.

“SIAMESI” parla di un legame fraterno che va oltre le parole. Quanto è difficile per voi esprimere affetto e vulnerabilità, e quanto la musica vi aiuta a farlo?

Sick Budd: Io chiaramente non posso esprimermi con le parole, almeno non nel modo classico. Però alla fine lo faccio lo stesso, attraverso la musica. Credo che chi fa musica abbia, in un certo senso, qualcosa che non torna nel modo in cui si relaziona con gli altri, nel modo in cui si sente rispetto al mondo. Non è per forza un “problema”, ma sicuramente è qualcosa che ti spinge a cercare un canale alternativo per comunicare. La musica, per me, è anche una specie di maschera: ti permette di scegliere chi vuoi essere e, paradossalmente, proprio per questo ti fa sentire autentico. Ci sono momenti in cui magari ti dici “sto bene” solo perché sei con persone che parlano di musica o che la fanno, e in quel contesto ti senti davvero a tuo agio, ti senti te stesso. È lì che ritrovo un equilibrio, anche nei confronti delle persone che amo. È come se la musica sistemasse qualcosa dentro di me che non riuscirei mai a spiegare a voce.

Silent Bob: Credo che, sia da parte mia che da parte di Bud, ci siano delle mancanze sul piano dell’espressione emotiva, soprattutto quando si tratta di farlo faccia a faccia. Un po’ perché ci hanno insegnato così, a tenere certe cose dentro, a non mostrarle troppo. Anche conoscendo Bud molto bene, so quanto possa essere difficile per lui, come per me, esprimersi davvero a parole. A volte le parole diventano troppo ingombranti, troppo “giuste” o troppo dirette. E allora usi la musica: l’unico modo che abbiamo per tirar fuori certe emozioni senza doverle spiegare, analizzare, giustificare. Quando facciamo musica, in realtà, stiamo dicendo proprio quelle cose che magari vorremmo riuscire a dire a voce. E il bello è che, una volta che le hai messe dentro a un brano, ti senti più leggero, più libero. È come se finalmente avessimo trovato un linguaggio che ci rappresenta davvero.

In “K-HOLE”, il mood è cupo e disorientante, e la collaborazione con 18K amplifica questa sensazione. Cosa vi ha spinto a esplorare un immaginario così oscuro?

Silent Bob: Il disco precedente aveva un’impronta ben precisa, più melodica, più cantata, quasi più “strumentale” nel senso classico del termine, con una forte presenza musicale. Stavolta, invece, c’è stata un’esigenza diversa, più diretta: io avevo voglia di tornare in studio e fare quella roba che ti fa divertire, che ti prende di pancia, con gli 808 che spingono forte, le casse che tremano. Avevo bisogno di qualcosa di più istintivo, di più “sporco”. Dentro ANGELO BALACLAVA ci sono tanti esperimenti, ma credo siano stati gestiti in modo equilibrato. Abbiamo portato quello che so fare meglio, soprattutto su pezzi come “GROSSISTA” o “WTF”. “K-HOLE”, ad esempio, nasce da un campione che ha trovato Bud—magari lui lo spiega meglio di me—ma fin dall’inizio sapevamo che doveva essere la traccia più cupa del disco. Ho impiegato un bel po’ a scriverla, perché volevo trovare il giusto mood, quello che ti fa sentire tutto il peso del pezzo. E credo che alla fine ci siamo riusciti.

Sick Budd: Questo disco è un po’ la sintesi di tutto quello che abbiamo fatto finora, ma con una chiave decisamente più matura. Abbiamo ripescato alcune attitudini dei primi progetti, soprattutto quella voglia di fare pezzi che spingono, che funzionano anche nei club—cosa che, per esempio, nell’ultimo disco mancava, dove invece dominava un immaginario più malinconico e introspettivo. Stavolta, invece, ci siamo concessi più sfaccettature, più libertà, e il risultato è un album vario ma coerente. Un brano come “K-HOLE”, ad esempio, è tra gli episodi più cupi del disco: nasce da un campione di chitarra degli anni ’70, che abbiamo completamente riadattato cambiandogli tonalità e riportandolo nel nostro mondo, arricchendolo con batterie basse e scelte sonore che mischiano l’organico e il digitale. In tutto il progetto abbiamo usato un sintetizzatore e un campionatore anni Duemila, gli stessi che si trovavano nei dischi di quel periodo. Anche in “K-HOLE” si sente forte questa direzione sonora: è un mix tra passato e presente, tra sound vintage e attitudine moderna. E credo che questo approccio abbia dato al disco un’identità ancora più definita.

Ci sono tre collaborazioni. Come le avete scelte e come sono nati i brani?

Silent Bob: Tutti i brani sono nati in studio, come sempre. Poi, man mano che prendevano forma, iniziavo a immaginarmi delle collaborazioni sopra. Per esempio, quando abbiamo chiuso “Mediterraneo”, ho subito pensato che fosse perfetto per Guè. Lo stesso è successo con “K-Hole”: mentre lo scrivevo, mi è venuto spontaneo pensare a 18K, perché sentivo che avrebbe portato qualcosa di potente e coerente con il mood del brano. In generale, mentre componevo, avevo già in testa delle voci, delle presenze. A volte ti dici: “Qui ci starebbe bene uno, qui un altro”. Poi però, tra mille incastri, tempistiche e disponibilità, non sempre si riesce a fare tutto. Ci vogliono il tempo, l’occasione, la volontà da entrambe le parti. Con Jeune Mort, ad esempio, è stato diverso: è un artista francese che ascolto da anni, il mio preferito in assoluto della scena francese. Avere lui su “SENZA BRIVIDI (RMX)” è stato speciale, perché c’era un legame vero, personale. L’ho ascoltato per due anni interi, e quando lui ha ricambiato l’interesse è stato emozionante, anche perché è la prima volta che collaboro con un artista non italiano. È un passo importante per me. Avere Guè nel disco è ovviamente un onore, una leggenda. E anche 18K, che secondo me è uno dei più forti tra quelli usciti negli ultimi anni. In realtà, sono tutti e tre artisti che ho avuto costantemente in cuffia negli ultimi tre anni, mentre scrivevo questo disco. Per questo le collaborazioni sono venute in modo così naturale: erano già nella mia testa da prima che diventassero reali.

“11 SETTEMBRE” usa un’immagine fortissima per descrivere un’ossessione tossica. 

Silent Bob: Con “11 Settembre” è nato tutto da una singola barra: “Sei il mio trauma più grande, sei il mio 11 settembre”. Una frase enorme, esagerata, quasi violenta nella sua forza, che però mi ha dato subito la direzione emotiva del pezzo. Da lì in poi, tutto il resto è venuto naturale. È come se quella metafora avesse creato una cornice così potente da permettermi di costruire il resto attorno, andando a ritroso, zoomando indietro da quell’immagine centrale. Tutti i dettagli, le situazioni, le emozioni, si sono composti da soli. Mi capita spesso così: quando arriva quella frase che spacca, quella che ti accende qualcosa dentro, poi il brano scorre. E “11 Settembre” è uno di quei casi. A me piace tantissimo scrivere di relazioni personali, perché ci sono dentro tutta la complessità, il dolore e l’intimità che cerco nella musica. È lì che riesco a mettermi davvero a nudo.

“MILANO 3AM” è il classico pezzo che ascolti guidando di notte, perso nei pensieri. Qual è la scena che hai vissuto e che ti ha fatto scrivere il brano?

Silent Bob: “Milano 3AM” nasce, come molti altri pezzi del disco, da qualcosa di più grande. Un’emozione forte, un momento preciso che poi si espande in immagini, versi, suoni. In questo caso, tutto parte da me che giro per Milano, di notte, e cerco questa persona nei volti dei passanti in centro. Tu, ad esempio, l’hai collegato all’immagine di me in macchina — e ci sta, perché quel pezzo ha proprio una vibe notturna, quasi cinematografica. Forse nasce da un mio delirio, da quel momento in cui sei talmente preso che credi davvero di averla vista tra la gente… e invece non era lei. Avevo bisogno di esorcizzare quella sensazione, di urlarla, anche se il pezzo ha una base più melodica e malinconica. Gridarla, per tirarla fuori. Tutte le immagini di questo disco, in realtà, sono così: nascono da un fotogramma nitido nella mia testa, da una sensazione vissuta, e poi da lì costruisco tutto il brano. È come partire da un fermo immagine e lasciarlo evolvere in una storia.

Guardando indietro al vostro percorso, qual è la cosa che più è cambiata nel vostro approccio rispetto ai primi lavori?

Sick Budd: Questo è il quarto disco che facciamo insieme, senza contare i singoli. E col tempo cambia anche il nostro approccio: cresce la pazienza, ma anche le aspettative. Più vai avanti, più diventa importante non ripeterti, non cadere in ciò che hai già detto o suonato. Ogni brano dev’essere qualcosa che aggiunge, che ha un suo colore, una sua identità. E questo richiede tempo, ascolto, riflessione. A volte rifacciamo un pezzo più volte, proprio per trovare quella sfumatura che ci manca. Col passare degli anni è diventato tutto più complesso, ma anche più stimolante. Noi continuiamo a vederci in studio come sempre, ma siamo molto più esigenti con noi stessi. Cerchiamo di restare fedeli a ciò che sentiamo davvero, pur tenendo conto che, come tutti, ci confrontiamo con quella tensione tra ciò che “funziona” a livello discografico e ciò che invece senti di dover fare per restare autentico. Ci sono idee o scelte musicali che inizialmente possono sembrarti scomode, rischiose… ma poi pensi: “Forse è proprio grazie a queste scelte che siamo arrivati fin qui”. E allora ti prendi il diritto di andare per la tua strada. Certo, a volte ci siamo detti: “Proviamo a fare qualcosa che stia nel suono del momento”, ma poi ci siamo sempre resi conto che non ci apparteneva. E oggi, fortunatamente, possiamo permetterci il lusso di essere davvero noi stessi, senza rincorrere nulla. È questo il valore che vogliamo preservare.

Il tour è già un successo, con diverse date sold out. Qual è il live che aspettate con più ansia e come saranno i live?

Sick Budd: Aspettiamo tutte le date, ma quella al Carroponte sarà davvero speciale: è l’unica vera grande data open air di questo tour, e rappresenta un po’ la “festa” finale dopo tutto il percorso nei club. La formazione sul palco sarà sempre la nostra, quella di sempre, ma questa volta abbiamo lavorato anche su qualcosa in più dal punto di vista scenico. Abbiamo sviluppato un’idea visiva nuova, molto interessante, che rappresenta un’evoluzione rispetto ai tour precedenti. È una sorpresa, ma possiamo dire che darà un’identità forte anche allo show dal vivo. Ovviamente ci aspettano ore e ore di prove, perché vogliamo arrivare preparati come sempre, con la cura e l’attenzione che mettiamo in ogni nostro progetto.

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