L’Officina della Camomilla: basterebbe forse solo leggere il nome per capire la natura ossimorica di questa band di culto della scena indie italiana.
L’indie è un po’ come Dio, un qualcosa che abbiamo creato, a cui abbiamo dato un nome per descrivere un’entità che ci dà le sensazioni di cui abbiamo bisogno. E in questa visione L’Officina della Camomilla rappresenta il nucleo dei primi profeti: ragazzi e ragazze che dal 2008 hanno cominciato a evangelizzare chi è troppo sensibile per far pace con sé stesso, portando luce con un’idea musicale che in Italia non esisteva.
Nonostante il meraviglioso spirito collettivo che riempie l’universo dell’Officina della Camomilla, l’anima è sempre rappresentata da Francesco de Leo e dalla sua narrazione edulcorata delle turbe giovanili.
Non riesco a vederlo diversamente da un predestinato che è a questo mondo con una missione ben precisa: alzare una barriera tra la disperazione e la serenità, essere trafitto dalle sensazioni più laceranti per poi tradurre tutto questo e servirlo come zucchero filato ai suoi figli e figlie.
Non bastano gli occhiali scuri e il ciuffo lungo di Francesco per nascondere il suo animo sensibile e fragile, che ha bisogno dell’Officina della Camomilla tanto quanto chi la ascolta per buttare fuori quello che sente in una forma meno mostruosa.
Alle radici dell’Officina della Camomilla
I pezzi nuovi sono solo due: Woodstock ‘99 e Dandy Candy, per il resto il concerto è un lungo e intenso trip nel passato.
Quella giovane donna appartiene a nessuno e a nessun altro
Al suo castigo di stelle nella bottiglia e a nessun altro
E la tua macchina alle 4 del mattino
È piena di stelle marine
Quando scoppi a piangere
Perché non riesci a dirmi che ti piace il mare
Il misto di delicatezza, malinconia, psichedelia e punk che L’Officina della Camomilla porta sul palco è qualcosa di unico. Una pozione magica che lega i pensieri a palloncini colorati e li fa volare via, lontano, in mondi rosa pieni di vapore tiepido.
Diversi pezzi vecchi dell’Officina della Camomilla mi ricordano la psichedelia dei primi Pink Floyd, quelli di The Gnome e See Emily Play. Altri brani mi riportano alla macabra e folle tranquillità di My World di Charles Manson (sì, è proprio lui).
Arriva il momento di La tua ragazza non ascolta i Beat Happening e il palco diventa un rave pieno di persone che cantano, ballano e si abbracciano in una fusione totale tra pubblico e band.
Il finale non poteva che essere dedicato ad uno dei brani sacri dell’indie italiano, una di quelle pietre angolari da dove tutto è partito: Un fiore per coltello. Un pezzo che custodisce, per me, il primo segreto della ricetta magica dell’indie: far immaginare molto più di quanto dica.
Prendi la macchina e tirami via da sotto al tavolo
E portami nel cinema più lontano
Il finestrino è un film horror
Ma nel cruscotto ci sono i giochi del giornale
Di profilo sembri Monica Vitti
Con il tuo walkman verdeacqua e un fiore per coltello
E dietro di te c’è sempre brutto tempo
Dietro di te fa solo brutto tempo