BRIXIA è casa, memoria e viaggio emotivo: l’intervista a Sidy

da | Lug 2, 2025 | Interviste

Sidy ci ha aperto le porte del suo mondo senza filtri. "BRIXIA” racconta Brescia, le sue radici e la ricerca di sé.

Tra Brescia e Milano, mentre la città dorme, Sidy, giovane artista afro-italiano classe 1998, dà forma a BRIXIA. Disponibile dal 20 giugno per Afromartian/Kama Records, questo EP d’esordio è composto da sette brani che scorrono con naturalezza tra radici africane e presente italiano, tra la voglia di raccontarsi senza filtri e il bisogno di trovare il proprio posto nel mondo.

Dopo aver calcato palchi importanti come quello di Sanremo Giovani, X Factor e il Mi Ami Festival, e collaborato con nomi del calibro di Mahmood e Ghali, è proprio con BRIXIA che Sidy segna un punto di svolta, definendo la sua identità artistica. Un progetto che è al tempo stesso una dichiarazione d’amore per la città che lo ha cresciuto e un viaggio intimo dentro sé stesso, dove ogni traccia è un passo, una tappa, un ricordo che ritorna.

Quattro chiacchiere con Sidy su BRIXIA

Abbiamo avuto il piacere di parlare con lui e, dopo qualche complimento (meritato, davvero!) sul suo progetto, ecco cosa ci siamo detti.

BRIXIA è il titolo del tuo EP ma anche di una delle tracce che troviamo al suo interno. Cosa significa e cosa incarna per te, sia a livello personale che artistico?

Ho scelto di mantenere il nome BRIXIA sia per l’EP che per la canzone perché, riascoltandolo più volte, io e il mio team ci siamo resi conto che era il titolo che meglio rappresentava l’intero percorso. L’EP, infatti, è una sorta di viaggio: racconta un po’ della mia vita, come può essere la vita di chiunque, però proprio nella città che la rappresenta. Dopo l’introduzione, parte subito “Brixia”, che diventa filo conduttore di tutto. Sono sempre stato innamoratissimo dalle canzoni che hanno come titolo il nome di una città (Brixia, infatti, è il nome latino di Brescia, ndr), perché le città conservano la memoria delle persone: quei piccoli momenti, quegli odori che rimangono in angoletti nascosti dove ci sono dei ristoranti… BRIXIA racchiude tutto questo.

Ascoltando l’EP si capisce che nasce da un lungo processo di introspezione e per questo volevo chiederti qual è stata la cosa più difficile da affrontare durante questo percorso e se c’è una canzone in cui ritieni di esserti esposto di più, emotivamente parlando.

La canzone che mi ha messo più in difficoltà è stata “Call Center”, perché in un certo senso mi esponeva molto a livello emotivo e comunicativo, ma sentivo il bisogno di parlare in quel modo. Il linguaggio è un po’ diverso rispetto alle altre tracce, si parla di una storia tossica, complicata. Non so se hai presente “Minuetto”… è un po’ quel discorso lì. Volevo raccontare nei dettagli il senso di dipendenza che avevo nei confronti di una ragazza, contrapposto a una sorta di “continuiamo finché dura”. È stato un pezzo che mi ha fatto toccare dei tasti che inizialmente non volevo toccare, ma che alla fine ho sentito il bisogno di tirar fuori. Poi c’è “Bagagli”, che è quella che mi ha preso di più emotivamente. All’inizio non doveva nemmeno essere l’ultima traccia dell’EP, ma lo è diventata successivamente. Questo progetto lo abbiamo portato avanti tra Brescia e Milano: io registravo di notte, poi andavo in studio con Brail e Dave, il mio manager, per rielaborare il tutto. “Bagagli” l’ho ricantata più volte ed è nata l’esigenza di portarla ad una fine. Per questo è diventata l’ultima traccia, l’outro di BRIXIA. Emotivamente mi ha aiutato ad affrontare con uno sguardo più aperto quel “viaggio finale”, il bisogno di andare oltre e lasciare indietro quello che per tanto tempo mi sono portato dietro… come un bagaglio, appunto.

Hai partecipato al tour di Mahmood nel 2022 e al brano “Paprika” di Ghali. Quanto hanno influenzato questi artisti la tua crescita musicale?

Entrambi mi hanno dato tantissimo, specialmente Mahmood anche perché ci ho passato insieme un’estate intera. È stata un’esperienza davvero formativa perché mi sono dovuto mettere in gioco. Non avevo mai fatto il corista, né lavorato a canzoni di altri artisti in quel modo. Entrare nella dimensione vocale di Ale (Mahmood, ndr) è stato un po’ come fare un salto nel vuoto. Mi chiedevo: “Ma io ce la faccio?”, però superata questa paura, mi sono portato a casa una nuova consapevolezza: ho imparato a gestire meglio le melodie, a rielaborare la mia voce, a capire i miei limiti. Con Ghali, invece, ho riscoperto una dinamica simile a quella che c’è anche in “Bagagli”: quella del “freghiamocene” liberatorio. “Paprika” era piena di cori, movimento, influenze afrobeat… un sound senza paura, con tanta grinta. E quella grinta mi è piaciuta tantissimo. Per tutta la mia vita ho avuto questa attitudine del “Che bello questo, vorrei farlo anch’io”. Ho sempre cercato di assorbire e trasformare ciò che mi ispirava, per renderlo mio.

Dai tuoi testi il Senegal viene percepito come una patria “di sangue” ma allo stesso tempo distante: che rapporto hai oggi con le tue radici?

Le sto riscoprendo pian piano, con una prospettiva del tutto nuova. Fino a qualche anno fa, avvertivo quasi un senso di “obbligo”, anche da parte della mia famiglia, ad amare un Paese e una cultura che, in realtà, conoscevo solo dall’esterno, come un visitatore anche perché l’ultima volta che sono stato in Senegal avevo otto anni, e ora ne ho ventisette, è passato parecchio tempo. Negli ultimi anni, però, grazie anche all’esperienza con AFROBRIX, un festival che organizzo e che si occupa di afro-discendenza, ho cominciato a riscoprirla e anche a sentire il bisogno di capirne di più, di arrivare in fondo. Ho sempre vissuto questo dualismo tra Senegal e Italia: da un lato, l’Italia, dove ho trascorso tutta la mia vita; dall’altro, avevo la consapevolezza che tornando a casa c’era un’altra dimensione ad aspettarmi. Nell’EP arrivo alla conclusione che queste due realtà non sono mai state davvero separate per me. Ho sempre cercato di concepirle come universi distinti, ma alla fine le ho vissute come un’unica dimensione, una cultura unica e nuova.

Ultima domanda, ma non per importanza, in “Figlio d’arte” affermi che “lo zaino di chi parte è sempre più leggero rispetto a quello di chi torna”. Considerando BRIXIA come un viaggio dentro te stesso, cosa ti porti dentro adesso che questo capitolo si è concluso?

Più che un viaggio dentro, è stato un viaggio fuori, un modo per vedere effettivamente cosa c’è fuori di me. Le voci all’inizio dell’EP ripetono questa frase: “non so cosa c’è fuori di me”, ed esprimono proprio questo interrogativo costante. È come se il mio corpo, per anni, fosse stato uno scudo, una protezione dietro cui mi nascondevo e adesso avessi il bisogno di andare fuori per tornare con lo zaino più pesante. Tutto l’EP è un viaggio verso l’esterno. Immagina di partire dal centro di te stesso e, man mano che fai dei passi per “uscire”, incontri parole, vissuti, pensieri che ti tieni dentro, emozioni. È un viaggio che ti porta a vederti da fuori e a capire che sei una persona “normale”, nel senso più autentico del termine, e a renderti conto che, in fondo, non hai nulla da nascondere.

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