Chi negli anni 2000 ha vissuto l’adolescenza in una piccola città italiana sa bene cosa significasse sfrecciare in motorino — magari su un Malaguti Phantom — per evadere, per sentirsi liberi, per conquistarsi un pezzetto di identità. Ed è proprio da lì che ripartono i BELIZE, band che, ieri, venerdì 9 maggio, è tornata con un nuovo disco: “Phantom Favola” (Woodworm/Universal). Un titolo che è un simbolo: tra sogno e disillusione, tra favola e realtà, tra quello che eravamo e quello che — un po’ a fatica — stiamo diventando. Perché a trent’anni non sei più un ragazzo, ma spesso non ti senti ancora adulto. E questo disco è anche il racconto di quella terra di mezzo.
Abbiamo parlato con i BELIZE di rinascita, amicizia, cambiamenti sonori e della voglia di tornare sul palco. Ecco cosa ci hanno raccontato.
Phantom Favola suona come una corsa in motorino tra sogno e disillusione: quanto vi sentite ancora quei ragazzi in sella al Phantom Malaguti e quanto invece siete diventati gli adulti che descrivete nei brani?
Ti potremmo rispondere in tre modi diversi: io (Riccardo) vivo questo dualismo dove ogni tanto voglio essere adulto e ogni tanto preferisco rimanere bambino – Federico forse è diventato adulto troppo presto e sta cercando un modo di tornare indietro, mentre Mattia è letteralmente appena diventato adulto in quanto ha avuto un figlio…
Il disco parla di rinascita, anche a costo di “distruggere” ciò che eravate. Cosa avete lasciato andare e cosa, invece, avete scoperto di voler tenere stretto?
Sicuramente vogliamo tenere stretto il rapporto che siamo riusciti a ricostruire tra di noi. Ci siamo davvero ritrovati grazie al disco e recentemente ci siamo proprio detti’un ovvietà del tipo “che bello che ci stiamo vedendo più spesso” che però è stato bello certificare. Invece abbiamo lasciato andare le paranoie, e le strategie che tolgono magia alla musica e al progetto.
Dai beat rarefatti di “Replica” alle chitarre sature di Phantom Favola: quanto è stato naturale — o faticoso — spostarvi verso sonorità più rock? Vi siete mai sentiti “fuori posto” nel farlo?
No, fuori posto no, perché fondamentalmente noi nasciamo con quella musica lì: i nostri primi ascolti sono tutti rock. Diciamo che dopo i primi dischi in cui abbiamo creato un suono che sentiamo nostro, è arrivata l’esigenza di inserire le chitarre, e chiaramente questo ha comportato un periodo di sperimentazione: è stato un lavoro lungo bilanciare questa volontà senza forzature, inserendo il tutto in una cifra sonora ben definita e riconoscibile.
C’è un pezzo del disco che sentite più vostro, o che ha avuto un ruolo speciale nella lavorazione del progetto, magari anche doloroso o liberatorio?
Per me (Riccardo) è stato quando ho cantato la prima bozza di “In mio fratello è tutto a posto” a Mattia, e mi sono messo a piangere. Ma anche quando gli ho fatto sentire “In Fede”, quella volta invece si è messo a piangere lui!
Nel 2025 tornate live dopo una lunga pausa: cosa significa per voi tornare sul palco con questo nuovo bagaglio sonoro e personale? Il pubblico è cambiato, ma voi in che modo siete cambiati nel modo di vivere il concerto?
In realtà dobbiamo ancora scoprirlo, ma sicuramente abbiamo una gran voglia di farlo: i concerti sono cambiati molto durante questi anni, soprattutto il modo in cui si eseguono le canzoni. Gli stessi artisti che qualche anno fa suonavano circondati da campionatori ora magari hanno la band (a partire dai rapper). Siamo contenti di questo ritorno alla musica suonata, quindi sarà interessante fondere entrambe gli approcci nelle nostre prossime date.