Arrivare fino al palco di Sanremo Giovani non è mai solo una questione di visibilità. Per Welo, quel palco è diventato il punto d’incontro tra una storia personale e una narrazione collettiva che raramente trova spazio nel racconto mainstream. Con “Emigrato”, Welo non si è limitato a partecipare a una competizione: ha portato dentro Sanremo una voce che nasce lontano dai centri, dai privilegi, dalle scorciatoie.
Arrivare in finale con “Emigrato” non è stato quindi solo un passaggio televisivo, ma un segnale preciso. Il brano – già disponibile su tutte le piattaforme – racconta una partenza obbligata, mai idealizzata. Non il viaggio romantico verso un futuro migliore, ma la necessità di andare via perché restare, spesso, costa troppo. È una storia di assenze, di scelte forzate, di adattamento continuo. Sul palco, Welo la restituisce con una lucidità disarmante, trasformando un’esperienza individuale in un racconto che appartiene a molti.
Durante la semifinale su Rai 2 è arrivato uno dei momenti più emblematici di tutto il percorso: Carlo Conti, colpito dall’impatto del pezzo, ha suggerito all’artista di pensare a “Emigrato” come a un jingle nazionale. Un’intuizione forte, che richiama quanto accaduto lo scorso anno con Gabry Ponte, capace di trasformare un brano in un ritornello capillare, riconoscibile ovunque. Un invito a rielaborare la canzone, a farla viaggiare ancora di più, senza snaturarne il significato. Un riconoscimento che dice molto sulla potenza comunicativa del progetto e sulla sua capacità di parlare a un pubblico ampio, trasversale.
“Emigrato”: partire senza smettere di appartenere
“Emigrato” non è una denuncia gridata, ma un racconto che colpisce perché è reale. Dentro ci sono immagini semplici e precise: la famiglia come unico punto fermo, il lavoro che manca o che esiste solo ai margini, le radici che a volte pesano ma non smettono mai di sostenere. Il Sud che emerge non è folkloristico, né edulcorato: è vivo, contraddittorio, spesso scomodo.
C’è Lecce, c’è il Salento, c’è una terra che ti insegna presto cosa significa arrangiarsi, ma anche condividere. Nei versi di Welo si avverte il rumore delle strade di provincia, il tempo che scorre diversamente, il senso di comunità che resiste anche quando tutto sembra spingerti lontano. È un Sud che non chiede compassione, ma ascolto. Che non vuole essere mitizzato, ma riconosciuto per quello che è.
Nel racconto dell’artista, l’ironia diventa una forma di difesa, quasi di sopravvivenza. La rabbia non esplode mai a vuoto, ma viene incanalata in parole che restano addosso. Ogni verso sembra parlare a chi, almeno una volta, si è sentito fuori posto nel luogo in cui è nato.
Dal palco al territorio, senza perdere il centro
Ciò che rende Welo credibile è la coerenza. Nei videoclip coinvolge spesso ragazzi dei quartieri popolari, volti reali, storie che raramente trovano rappresentazione. Non è una scelta estetica, ma profondamente umana. La musica diventa un megafono, non un rifugio. Welo ribadisce una poetica chiara: raccontare chi parte, senza mai smettere di appartenere. Ed è forse proprio per questo che oggi la sua voce continua a risuonare forte, anche oltre il palco di Sanremo.
Eppure Lecce, nella scrittura di Welo, non è mai solo un luogo di mancanze. È una terra che custodisce valori solidi, radicati, che non vengono messi in discussione nemmeno davanti alla precarietà. Il Mediterraneo non è solo uno sfondo geografico, ma un’identità culturale fatta di condivisione, di comunità, di corpi che si incontrano nelle piazze, nei rituali quotidiani, nei brindisi improvvisati. Anche quando il lavoro non c’è e i soldi scarseggiano, resta un senso di appartenenza che tiene insieme tutto. Andare via significa lasciare i luoghi dell’incontro, il “solito posto”, quella dimensione collettiva che nel Salento continua a esistere nonostante tutto.
Partire per restare: il racconto di Welo
Con Cromosomi abbiamo parlato con Welo partendo da un’urgenza precisa: raccontare quello che succede davvero “lì fuori”. Il lavoro in nero, le radici che tirano, le ingiustizie di ogni giorno, un Sud vissuto sulla pelle e non filtrato dallo sguardo di chi osserva da lontano. Ne è nato un dialogo che passa per musica, strada, famiglia e senso di appartenenza, e che fa capire chiaramente una cosa: Emigrato non è un punto di arrivo, ma l’inizio di una storia molto più grande, ancora tutta da scavare.
In “Emigrato” la partenza non è fuga ma necessità. C’è un’immagine, un momento preciso, da cui è nato tutto? Quello che ti ha fatto dire: “Ok, questa storia la devo raccontare”.
“Nella mia musica c’è sempre stata questa chiave di rivalsa. Penso che crescendo abbia preso semplicemente il sopravvento su tutto: quando cresci metti a fuoco le cose che contano.”
Nel brano il Sud non è idealizzato, anzi. Perché per te era fondamentale mostrarlo così com’è, anche quando è scomodo da guardare?
“Io sono uno vero. Le bugie non le dico, né in musica né in mezzo alla strada. Era l’unica cosa che potevo fare, non c’erano alternative.”
Dentro “Emigrato” convivono rabbia, ironia, famiglia, vita vera. Come fai a tenere insieme tutte queste cose senza che il pezzo suoni pesante o moralista?
“Eh, bella domanda! Ho cercato semplicemente di fare un bel riassunto ma l’argomento va ancora sviscerato come si deve: siamo al 5% di ciò che ho da dire in questi mesi.”
Arrivare in finale a Sanremo Giovani con un brano che parla di lavoro in nero, radici, ingiustizie… che effetto ti fa portare un tema così concreto su un palco così “istituzionale”?
“Onestamente vedo tanto parlare di problemi psicologici, relazione tossiche: diciamoci la verità, la maggior parte della musica impegnata che sentiamo tratta questi temi e tante volte ne sono usciti brani incredibili. Mi chiedevo tra me e me però: perchè tutti parlano di ciò che succede dentro di noi e non di quello che succede lì fuori? Forse sarà meno mainstream, ma io vivo questa roba e sento il bisogno di scriverla.”
Nei tuoi video coinvolgi spesso ragazzi dei quartieri popolari. Quanto ti cambia il modo di scrivere sapere che sei diventato un megafono anche per loro?
“Io vengo da quel contesto lì, ho cambiato tante cose, vissuto tante situazioni. La mia musica nasce in mezzo alla strada, e anche se ora si sta evolvendo strizzerà sempre l’occhio a quel mondo lì.”
“Emigrato” e “Me Ne Tornerò” sembrano due facce della stessa storia: andare, restare, tornare. Il prossimo capitolo dove ci porta? Stai costruendo una linea narrativa sull’appartenenza o è successo da solo?
“Il prossimo capitolo ci porta alla continuazione di questa storia. Lo devo alla gente, lo devo a me. Porterò brani più seri e brani più ironici ma la chiave sarà sempre e solo una: restare autentici.”









