Dopo il passaggio ad Amici, Albe potrebbe inseguire solo numeri e classifiche. Invece sceglie qualcosa di molto più concreto: chiamare il suo primo album Baita, parola che in dialetto bresciano significa “casa”, e costruirci intorno un mondo fatto di persone, radici e piccoli rituali di provincia. Otto brani scritti da lui, suonati con una band vera e prodotti da Francesco Savini e Alessandro Gemelli, diventano il racconto di un ragazzo che ha finalmente trovato il posto in cui suona come si sente. Non un rebranding, ma una fase nuova: più matura, più sua.
In queste canzoni ci sono i legami che restano quando il resto si sfoca: gli amici che ti tengono insieme anche quando ti perdi, gli amori che sbagliano strada ma tornano, la famiglia che ti aspetta “come a un pranzo della domenica”. Se hai vent’anni oggi, e hai provato almeno una volta a scappare da dove sei cresciuto per poi ritrovarti esattamente lì, Baita ti parla in modo diretto e senza giri di parole.
Una Baita dove tornare quando il mondo fa rumore
Il cuore del disco è proprio la title track, “Baita”, che apre l’album come una porta lasciata socchiusa: entri e trovi amici, storie, qualche cicatrice e molta ironia. È l’idea che una casa non sia solo un indirizzo, ma un insieme di persone, dialetti, strade sterrate e bar di paese. Brani come “Cercapersone” e “Rosario” insistono su questo: i legami veri non hanno bisogno di effetti speciali, bastano un aperitivo in piazza, un venditore di rose che diventa parte del gruppo, una Vespa parcheggiata sempre nello stesso posto.
La provincia, per Albe, non è un fondale neutro ma un personaggio del disco. Come il luogo che ti protegge e ti soffoca, che ti spinge ad andare via e poi ti richiama. È quella sensazione che conosci bene se vieni da fuori: quando torni giù senti di essere cambiato, ma le vie sono uguali, gli amici fanno ancora tardi e il barista ti chiama per nome. Proprio lì è che capisci chi eri e chi sei diventato.

Foto @ La Blet
Stylist @ Valentina Castellani
Una band di amici e un suono che sembra quasi live
Dal lato sonoro, Baita è un disco compatto, con un’identità chiara. Niente plastica, niente beat di turno: solo strumenti reali, chitarre che graffiano il giusto, batterie che respirano, arrangiamenti che suonano come una band che prova in garage e poi sale sul palco. Savini e Gemelli mescolano pop contemporaneo, indie italiano, influenze brit-pop e un tocco folk, cercando sempre un’estetica “viva”, quasi da concerto in salotto.
Il fatto che la band sia composta in gran parte da amici di Albe non è un dettaglio di colore: si sente. Le canzoni hanno la stessa familiarità del luogo a cui il titolo rimanda, come se ogni brano fosse una stanza diversa della stessa casa. Dopo anni di ricerca, cambi di suono e tentativi, qui l’artista trova un timbro riconoscibile: ascolti tre pezzi di fila e capisci che è lui, senza bisogno di playlist o algoritmi.
Amori che tornano, strappi che crescono, dialoghi col sé di vent’anni
Dentro Baita c’è tanto amore, ma mai patinato. “Te l’avevo detto” racconta una relazione che si è interrotta e poi è tornata al punto di partenza, ma con più consapevolezza. È quella frase che dici ridendo, ma che ti sei tenuto in pancia per anni: sapevo che saremmo tornati, solo che dovevamo prima passare attraverso tutti i nostri errori. È una canzone per chi ha fatto avanti e indietro con la stessa persona finché non ha imparato a guardarsi in faccia davvero.
All’estremo opposto c’è “Con te non ci torno più”, che mette a fuoco il momento in cui capisci che una storia finisce, ma tu no. Non è un pugno sul tavolo, è una presa di coscienza: imparare a stare in piedi da soli, trasformare la mancanza in crescita invece che in dipendenza. “Alla fine sono io”, invece, è un dialogo con l’Albe di vent’anni: una lettera aperta a quel ragazzo che si paragonava agli altri, aveva fretta di arrivare e non sapeva ancora che i giri a vuoto servono a qualcosa. Se sei di quella generazione che si sente sempre “in ritardo” rispetto a qualcuno su Instagram, qui ti ci ritrovi facile.
“Noi siamo quelli”: amici, gnari e concerti in salotto
A chiudere il disco arriva “Noi siamo quelli”, una sorta di brindisi collettivo dedicato agli amici di sempre, ai “gnari” bresciani con cui Albe è cresciuto. È la celebrazione di quella compagnia che ti fa impazzire, ti porta a letto tardi, ti fa litigare con tua madre e allo stesso tempo ti salva quando non sai dove andare. È la conferma che, anche quando tutto cambia, il tuo branco resta il posto più sicuro.
Non è un caso che per festeggiare l’uscita dell’album Albe abbia scelto gli house concert. Sono quattro date in quattro città – Milano, Bologna, Roma e Napoli – in case vere, per chi ha preordinato il vinile. Portare Baita letteralmente “a casa” delle persone chiude il cerchio. La musica nasce da un salotto pieno di amici e torna lì, in una dimensione intima dove non esiste il filtro del palco. In fondo, il sogno dichiarato di Albe è semplice: stare sempre in tour, usare gli album come mezzo per suonare, incontrare gente, farsi ispirare e ricominciare da capo.

Foto @ La Blet
Stylist @ Valentina Castellani
Due chiacchiere con Albe
Abbiamo chiacchierato con Albe alla vigilia dell’uscita di Baita, mentre stava preparando i suoi house concert tra Milano, Bologna, Roma e Napoli. Ne è nata una chiacchierata sincera, da vero “pranzo della domenica”, in cui abbiamo parlato di provincia, amori che tornano, gnari, paure lasciate andare e sogni di tour infiniti.
Ciao Alberto! Come stai? Partiamo da Baita: mi vuoi raccontare com’è nato?
“Tutto bene grazie. Baita, in realtà, non è nato, nel senso che non è stato scelto. Era un insieme di canzoni che avevo e che avevo deciso di raccogliere in un album.”
E perché Baita?
“Baita, in dialetto grecanico, significa ‘casa’ e le cose che racconto nell’album rappresentano molto il luogo da cui provengo: i miei amici, le mie origini. Quelle cose essenziali.”
Hai detto che questo disco è come un pranzo della domenica. Chi sono le persone che oggi si siedono a quel tavolo con te?
“Siamo ancora tutti amici, è una cosa recente. Nessuno è escluso. Aggiungerei anche i miei genitori.”
Baita è un album che racconta la provincia e le tue abitudini. Che cosa hai capito di te tornando nei luoghi da cui arrivi?
“Ho capito quanto dovevo capirmi. Andando via dal mio paese, Cene, ho scoperto tante parti di me che, quando torno, vedo più nitide perché mi confronto con versioni di me passate. Quando torno riaffiorano i ricordi. È come se ora fossi un’altra persona: invece di sentirli, quei ricordi, li vedo e li posso quasi toccare, li posso integrare. Per questo mi è servito molto andare via da casa.”
Qual è il legame – amicizia, famiglia – che oggi senti più inciso dentro di te?
“Credo che in ordine siano: la mia fidanzata, la mia famiglia e i miei amici. Sono i tre legami principali.”
Se dovessi scegliere un’immagine, una fotografia mentale per raccontare “Baita”, la title track, quale sarebbe?
“Proprio quella che si vede come copertina: rappresenta perfettamente quel momento. È come se in quella copertina stessimo cantando quella canzone.”
“Te l’avevo detto” è un brano consapevole. In che modo l’hai scritta e cosa hai scoperto di te riascoltandola?
“È un inno alla mia relazione attuale, che a un certo punto si è interrotta per un periodo. Io avevo lasciato questa persona dicendole ‘Vedrai che torneremo insieme’, e poi è successo davvero. Quindi ora posso dire: ‘Te l’avevo detto’. Prima non avrei potuto.”
Il brano “Come fanno tutti” nasce a Milano. Come l’hai scritta e qual è il difetto che non vuoi più ripetere “come fanno tutti”, come dici nel brano?
“L’ho scritta perché la produzione musicale del brano mi portava su quelle linee melodiche, con quella voglia di sfogarmi e non parlare dei soliti cliché. Quel difetto? Paragonarmi agli altri. Sbagliatissimo. Lo facevo sempre, ora non più.”
E in “Con te non ci torno più” qual è la cosa più difficile che hai imparato a lasciare andare?
“È uno dei miei brani preferiti. È stato un esperimento di scrittura interessante e solo dopo ho capito davvero che cosa significasse. Spesso non ci rendiamo conto subito di quello che scriviamo. In quel brano utilizzo esperienze e ricordi che non voglio più portarmi addosso, ma è dedicato anche a me stesso: non voglio più tornare alla persona che ero prima. Ora mi preferisco di più, a livello caratteriale e umano.”
In “Alla fine sono io” dialoghi con te stesso di vent’anni fa. Se potessi davvero farlo, cosa ti diresti oggi?
“Gli direi di darsi tempo, di non avere fretta, di non paragonarsi agli altri, di studiare musica. Questi sono i consigli che darei al me del passato.”
Chiudi l’album con “Noi siamo quelli”. “Quelli” cosa intendiamo? Come l’hai scritta?
“‘Noi siamo quelli’ è un titolo estratto dal ritornello: ‘Noi siamo quelli che senza fatica…’ e così via. Mantiene un velo di mistero, non ti fa capire quali ‘quelli’. E mi piace, perché noi siamo quelli di tante cose: quelli che vanno a letto tardi, che facevano disperare i genitori, che a scuola non avevano più voglia. Non siamo mai una sola cosa.L’ho scritta nella mia vecchia casa di Milano, poco prima di trasferirmi. Non sapevo di cosa parlare e alla fine ho pensato: facciamo una canzone sui gnari, i ragazzi. Un omaggio ai miei amici. Più ‘teste calde’ che saggi, ma li adoro.”
Parliamo degli house concert: come ti stai preparando?
“Abbiamo preparato i pezzi, poche cose a livello vocale. Non saranno veri e propri concerti, ma momenti da vivere con le persone che hanno acquistato il vinile e credono nel progetto. Un’esperienza legata all’album e anche un’occasione per rivedere persone che non vedo da un po’.”
C’è qualcosa di questa dimensione molto intima che non vedi l’ora di vivere? E qualcosa che invece temi?
“Non temo nulla. L’ho già fatto una volta a Milano. È come essere tra amici: non hai paura di sbagliare come su un grande palco. È tutto molto semplice.”
Dopo questi concerti intimi ne farai altri su un palco?
“Spero di sì, ma ora non ho certezze. Mi piacerebbe molto fare un tour invernale, qualche data in Italia tra primavera e inverno.”
Parliamo di collaborazioni: ti piacerebbe collaborare con qualcuno?
“Se c’è l’occasione e ha senso, se nasce da un legame artistico o umano, sì. Non sono per le collaborazioni casuali.”
Qualcuno che stimi particolarmente?
“Mobrici lo rispetto molto. Mi piace tutto il suo progetto solista.”
Quando è stato il momento in cui ti sei sentito autore?
“Dalla scelta.”
Pensa a Baita come se fosse una sola frase detta a qualcuno, quale sarebbe?
“C’è una frase nell’ultima canzone che rappresenta tutto: parla di amore, gioco, amicizia, infanzia. ‘Provarci con una e rovinarsi una festa, ma noi conosciamo il valore di un palo perché abbiamo fatto una vita a giocare a tedesca’. È una metafora: anche se sbagli e non segni, quei tentativi sono punti per la prossima volta.”
Se potessi mettere un solo oggetto nella tua baita per non sentirti perso, cosa metteresti?
“Una Vespa 50 Special azzurra, modificata.”
Immagino la tua baita con una finestra sul futuro, cosa vedresti?
“Spero solo concerti. Il mio sogno è essere sempre in tour. Gli album sono un mezzo per arrivare a quello: fare concerti, stare in giro, raccogliere ispirazione e ricominciare il ciclo.”









