Ci sono luoghi che non hanno bisogno di presentazioni: l’Arena di Verona è uno di questi. Ci ha accolti come ospiti in una casa costruita su musica e memoria, una scenografia intima e teatrale. Irama ha scelto di trasformare il palco in una casa: spazi intimi che parlavano di sé ma che, al tempo stesso, diventavano specchi nei quali potevamo riconoscerci. Ogni ambiente aveva un colore, un odore, un frammento di vita. Non eravamo spettatori: eravamo invitati a entrare, a sederci, a condividere ricordi che non erano più solo suoi.
La regia di Giuseppe Greco ha reso l’esperienza immersiva: le luci, i video, gli oggetti di scena dialogavano con la voce di Irama. La band, guidata da Giulio Nenna e Andrea Debernardi, non accompagnava soltanto: plasmava il suono, lo rendeva carne e respiro. Già prima che partisse la musica, abbiamo capito che non avremmo visto un live come tanti, ma saremmo entrati in un viaggio.
L’esplorazione inizia con “Lentamente“. Abbiamo percepito la potenza di una canzone che, già a Sanremo, aveva mostrato il volto più fragile e insieme più fiero di Irama. Dal vivo, il brano si è gonfiato come un’onda che ci ha travolto. Quelle parole che parlano di un amore che rallenta il tempo, che si consuma e si ricrea, erano il nostro stesso respiro.
Poi è arrivata “5 gocce“, e il concerto si è fatto confessione. Non era solo la storia di notti insonni, di bicchieri riempiti e svuotati: era il ritratto di quella stanchezza che conosciamo bene, di quando ci rifugiamo in piccoli rituali che non curano ma che almeno ci fanno resistere. Sentire Irama pronunciare “se l’amore uccide, allora uccidimi tu” ci ha colpiti come una lama che conosce già le nostre ferite. Non guardavamo un artista, vedevamo riflesso quel bisogno disperato di aggrapparci a qualcuno, anche quando non sappiamo se ci salva o ci affonda.
L’Arena tra luci, note e ricordi
L’ingresso di Elodie ha scosso l’Arena. Con “Ex” le emozioni sono diventate contraddizione pura: desiderio e rancore, rimpianto e attrazione. La loro complicità, due voci che si sfidavano e si cercavano nello stesso momento. Quando hanno cantato insieme “tu per me eri più una medicina”, abbiamo avvertito il peso di quelle storie che guariscono e avvelenano allo stesso tempo. Ci siamo riconosciuti nel confine sottile tra rimpianto e nostalgia, nel sapere che certe ferite bruciano ma continuano a tenerci vivi.
Con “Galassie” ci siamo alzati da terra. Non era il solito sogno pop: era un’immersione in un altrove che sembrava a portata di mano. Le immagini di stelle, gravità sospesa, città immaginarie non erano metafore lontane: erano la traduzione di un desiderio che tutti conosciamo, quello di fuggire da ciò che ci imprigiona. Le luci trasformavano l’Arena in un cielo vivo, e noi ci siamo sentiti sospesi, protetti da una promessa: che da qualche parte, oltre la malinconia, esiste un luogo dove si può ricominciare.
Il silenzio che ha accolto “Un giorno in più” è stato quasi sacro. Ci siamo trovati a fare i conti con le assenze che ci abitano, con i volti che non ci sono più e che continuiamo a cercare. Quando Irama ha cantato “mi hai insegnato a vivere, ora devi farlo anche tu”, ci siamo sentiti vulnerabili, ma non soli. Era come se il dolore fosse diventato una lingua comune, e in quella lingua abbiamo ritrovato forza.
Tempo di Inediti
Gli inediti ci hanno aperto la porta su un futuro che ancora non conoscevamo. “Senz’anima” ci ha fatto guardare dentro a un vuoto che tutti temiamo, ma che è impossibile non riconoscere. 48 ore ha raccontato la velocità con cui certe passioni consumano e lasciano cenere. “Circo” ci ha portati in un universo surreale, dove le maschere e gli inganni sembravano parlare anche di noi. “Tutto tranne questo” ci ha spogliati: il bisogno di tenere stretto qualcosa, pur di non affrontare il nulla.
Non erano semplici canzoni nuove. In quell’Arena abbiamo capito che l’album in arrivo non sarà solo musica, ma una narrazione di vita e di morte che ci riguarda da vicino.
La malinconia si è sciolta in festa con “Mediterranea”. Ballare, cantare, ridere: tutto questo è resistenza, tutto questo è vita.
Rkomi ha poi bussato alla porta e portato sul palco la sua intensità, con “Luna piena”. Ci parla di bugie, di desideri taciuti, di storie che si sgretolano, e dal vivo è sembrato ancora più ruvido. Quelle parole ci hanno ricordato che le relazioni non sono solo promesse dolci: a volte sono ferite che non smettono di sanguinare. Eppure, proprio in quella crudezza, abbiamo riconosciuto la verità. Era come guardarsi allo specchio e accettare che non tutto si salva, ma tutto lascia un segno.
Voci, stanze, verità
Il giardino acustico ci ha accolti con “Yo quiero amarte”: poche note, una voce nuda, la dichiarazione di un amore che non ha bisogno di rumore per esistere. Poi la festa è tornata con Nera, cantata all’unisono da tutta l’Arena: era impossibile non sentirsi parte di un coro che sapeva di appartenenza. “Bazooka”, “Ali” e “Tornerai da me” hanno riportato la tenerezza, e infine “La ragazza con il cuore di latta” con Noemi ci ha fatto piangere.
Linda non era solo la protagonista del brano: era tutte le fragilità che custodiamo. La voce di Noemi ha reso la storia ancora più vera, e in quell’Arena ci siamo sentiti protetti da una promessa: non sei più da sola, adesso siamo in due.
Con “Bella e rovinata” abbiamo visto riflessa la bellezza imperfetta che ci portiamo dentro. “Crepe” ci ha parlato di rotture e ferite che non si rimarginano, di quella rabbia che conosciamo bene quando qualcuno ci sostituisce ma resta addosso il suo odore. “Baby e Tu no” hanno riportato energia, ma senza togliere peso alle parole. E con “Say Something” Arisa ha donato una delicatezza struggente: due voci unite in un dialogo che parlava di silenzi e di tutto ciò che resta non detto. Per “Ovunque sarai” l’Arena si è illuminata di luci. Cantando insieme, abbiamo sentito che davvero le persone amate non se ne vanno mai del tutto: restano nei gesti, nei ricordi, nei silenzi. È stato impossibile trattenere le lacrime.
Un viaggio dentro l’anima
Con “La genesi del tuo colore” Dardust ha portato eleganza e intensità. Il cerchio si è chiuso con l’inedito “Mi mancherai moltissimo”. È stato come tornare nella stessa stanza da cui eravamo partiti, ma diversi. Dopo aver attraversato gioie e ferite, amore e perdita, ci siamo ritrovati lì, con la consapevolezza che ciò che manca non smette di vivere. L’applauso finale non era solo gratitudine: era la promessa di custodire quella casa che Irama aveva costruito per noi.
Adesso lo sguardo va a San Siro, l’11 giugno 2026. Se Verona è stata casa, Milano sarà tempio. Ma di questa notte ci resterà per sempre l’eco: la certezza che la musica può costruire luoghi in cui sentirsi meno soli.