Ieri sera al MONK è tornata a suonare una delle band più di culto della scena rock italiana: Il Teatro degli Orrori. Per chi ha più di trent’anni il nome è già leggenda, per chi è più giovane forse no: eppure negli anni 2000 il gruppo di Pierpaolo Capovilla ha segnato un’epoca con testi politici, sonorità rabbiose e concerti intensi. Dopo dieci anni di stop, il loro ritorno non poteva che attirare un pubblico affezionato, pronto a riabbracciarli. La seconda fase del tour, partito a febbraio 2025, li ha riportati a Roma con la loro miscela di rabbia, poesia e potenza sonora.
PP: Pogo & Piantini
Davanti a un pubblico eterogeneo, Capovilla ha guidato lo show con la sua voce inconfondibile, profonda e ruvida, capace di trasformare ogni pezzo in un urlo collettivo. Al suo fianco Gionata Mirai, Giulio Ragno Favero e Francesco Valente hanno ricreato l’intesa che ha reso storica la formazione, tra chitarre affilate e una sezione ritmica che non ha lasciato scampo.
La scaletta ha attraversato l’intera discografia, mescolando energia e momenti di introspezione. A sangue freddo ha acceso la sala con un coro unanime, mentre Io cerco te e Non vedo l’ora hanno riportato in superficie tutta la carica rabbiosa e diretta del gruppo. Poi il passo “rallentato” e struggente di Direzioni diverse e La canzone di Tom ha cambiato atmosfera, mostrando il lato più intimo e malinconico del Teatro degli Orrori.
Il concerto si è mosso così, tra bordate sonore e aperture più delicate, senza mai perdere intensità. Per chi conosceva a memoria ogni parola è stato un ritorno atteso, quasi una celebrazione. Per chi li vedeva per la prima volta, la scoperta di una band capace di unire denuncia e poesia, urgenza e fragilità, senza filtri e senza compromessi.
Un concerto che non si è chiuso con una canzone, ma con un appello alla coscienza
Ma il momento più intenso è arrivato alla fine. Dopo l’ultima canzone, Capovilla ha letto alcuni passaggi della lettera aperta del cardinale di Napoli Domenico Battaglia, pubblicata su Avvenire. Le sue parole, amplificate dal silenzio rispettoso della sala, hanno colpito come un pugno:
“E voi che sprofondate nelle poltrone rosse dei parlamenti, abbandonate dossier e grafici: attraversate, anche solo per un’ora, i corridoi spenti di un ospedale bombardato; odorate il gasolio dell’ultimo generatore; ascoltate il bip solitario di un respiratore sospeso tra vita e silenzio, e poi sussurrate – se ci riuscite – la locuzione «obiettivi strategici».”
E ancora:
“Se un progetto schiaccia l’innocente, è disumano.
Se una legge non protegge il debole, è disumana.
Se un profitto cresce sul dolore di chi non ha voce, è disumano.”
“Finché una bomba varrà più di un abbraccio, saremo smarriti. Finché le armi detteranno l’agenda, la pace sembrerà follia. Perciò, spegnete i cannoni. Fate tacere i titoli di borsa che crescono sul dolore.”
Un concerto che non si è chiuso con una canzone, ma con un appello alla coscienza. Un gesto che ha reso chiaro, ancora una volta, cosa significhi il ritorno de Il Teatro degli Orrori: non solo musica, ma un bisogno urgente di parola, denuncia e memoria.










