“Bubbledance” è un sogno in quattro tracce, dentro c’è tutta Anfisa Letyago

da | Lug 24, 2025 | Digital Cover

Anfisa Letyago è molto più di una DJ: è un’architetta del suono, una viaggiatrice emotiva, una narratrice elettronica. Con il nuovo EP Bubbledance trasforma il groove in poesia ipnotica, fondendo mare, memoria e clubbing in un’esperienza sonora intensa e raffinata. Il mondo balla, ma con occhi chiusi.

Dietro ogni DJ set di Anfisa Letyago si nasconde qualcosa che va oltre la musica. C’è un’energia che travolge e trascina, ma anche una costruzione attenta, raffinata, che unisce groove ipnotici e suggestioni ambient. Non è un caso se, nel giro di pochi anni, Anfisa è passata dall’essere una giovane promessa della scena techno a una presenza fissa nei più importanti festival e club internazionali. Il suo nuovo EP, Bubbledance, conferma una visione sonora sempre più matura, personale e profonda.

La sua storia, però, comincia lontano. Nata in Siberia da madre russa e padre italo-canadese di origini calabresi, è cresciuta nel Sud Italia, dove ha respirato il calore mediterraneo e ha imparato ad ascoltare la vita con uno sguardo attento e curioso. Dopo il diploma, la scelta di trasferirsi a Napoli per l’università segna una svolta: avrebbe potuto andare in una delle capitali europee dell’elettronica, ma è proprio nella città partenopea che trova il suo equilibrio. Il mare, l’energia disordinata e vitale della città, i tramonti su Nisida: tutto contribuisce a plasmare un’identità musicale che oggi è riconoscibilissima. Napoli diventa la sua casa, la sua base, il suo respiro.

La connessione con il territorio non è solo poetica: è concreta. La sua etichetta indipendente si chiama NSDA, acronimo di Nisida, l’isoletta di fronte a Bagnoli che rappresenta per lei una fonte costante di ispirazione. Ogni uscita pubblicata sotto quel nome, compresi i suoi lavori, è frutto di un processo attento e selettivo. Anfisa non pubblica mai nulla che non rispecchi al 100% la sua visione. La label, in questo senso, è uno spazio creativo libero, dove l’identità sonora conta più di qualsiasi tendenza.


Bubbledance suona come un’onda. E travolge tutto.

Il nuovo EP, Bubbledance, ne è la dimostrazione più evidente. Un lavoro che ha richiesto quasi un anno di lavoro e riflessione, costruito pazientemente tra studio e tour, testato davanti a pubblici diversi per misurarne l’impatto emotivo e fisico. Ogni traccia è stata plasmata ascoltando le reazioni del dancefloor, e poi rimodellata in studio, in un ciclo creativo continuo. Il risultato è un mix di profondità ambientale e groove magnetico che accompagna l’ascoltatore in un viaggio sospeso, onirico, in cui corpo e mente si muovono insieme.

Una delle tracce più rappresentative dell’EP è “In My Arms“, il singolo uscito l’11 luglio. Il brano apre a una dimensione ancora più intima, in cui la voce di Anfisa diventa elemento narrativo e strumento sonoro allo stesso tempo. A completare il quadro, un videoclip realizzato con intelligenza artificiale da un duo creativo milanese: un flusso visivo che esplora le soglie tra realtà e immaginazione, mescolando percezione, identità e simulazione digitale. Il risultato è un’esperienza immersiva che va ben oltre la semplice fruizione musicale.

Ma non c’è solo studio, introspezione e sperimentazione. La dimensione live resta fondamentale nel suo percorso. Nell’ultimo periodo Anfisa ha portato il suo sound tra Nord America ed Europa, esibendosi a Montreal, New York, Phoenix, Los Angeles, Cagliari, Vienna, Alicante. A ogni tappa raccoglie stimoli, impressioni, connessioni. Il viaggio fa parte del processo creativo: ogni volo, ogni hotel, ogni soundcheck diventa materiale da trasformare in studio. Anche nei momenti di pausa, tra una data e l’altra, non smette mai di osservare, ascoltare, raccogliere.

E quando finalmente si concede un momento di respiro, torna a Napoli. Vive davanti al mare, e in quella vista ritrova ogni volta la sua dimensione. Trascorre il tempo con amici, famiglia, si prende cura di sé, ma resta sempre in ascolto: le idee arrivano anche nei silenzi.

Anfisa Letyago: anatomia di un battito che non si spegne

Il legame con la scena napoletana è forte. Artisti come Gaetano Parisio, che continua a suonare in vinile, sono per lei punti di riferimento. Napoli, con la sua attitudine al rischio, alla mescolanza, alla profondità ritmica, ha contribuito a dare forma a quel groove che oggi è una cifra distintiva di Anfisa e della techno partenopea in generale.

Tra le tappe più attese del suo tour estivo c’è quella del 17 agosto alla Discoteca UNVRS, dove condividerà la consolle con Carl Cox, leggenda assoluta della techno mondiale e suo grande sostenitore. È stato proprio Cox, anni fa, a scommettere su di lei, pubblicando le sue prime tracce su Intec. Da allora, il rapporto è cresciuto nella stima reciproca. Ritrovarsi oggi sullo stesso palco non è solo una soddisfazione professionale, ma anche una conferma del percorso costruito con pazienza, talento e determinazione.

Nonostante il successo globale, Anfisa resta con i piedi per terra. È consapevole del momento complesso che vive il clubbing italiano, ma riconosce anche i segnali di rinascita e sperimentazione. Guarda con interesse ai fermenti dell’Est Europa e al panorama sudamericano, che considera tra i più vitali della scena elettronica attuale. E continua a lavorare senza fretta, fedele alla sua visione. Ogni nuova traccia, ogni uscita discografica, ogni DJ set è un capitolo che si aggiunge a un racconto in continua evoluzione.

Anfisa Letyago conferma la sua unicità: un’artista che non rincorre la scena, ma la attraversa lasciando un segno. Sempre con lo sguardo rivolto al mare. Sempre con la musica come bussola.

Ipnosi elettronica e mare: ecco il mondo di Anfisa

Abbiamo avuto l’onore di fare una bella chiacchierata con Anfisa Letyago, un incontro intenso e stimolante in cui abbiamo ripercorso le tappe fondamentali del suo viaggio musicale: dalla scintilla iniziale che l’ha portata a voler diventare una DJ all’incontro decisivo con Carl Cox, passando per il suo personale approccio alla produzione, il modo in cui costruisce e trasforma le tracce e, naturalmente, il racconto del nuovo EP Bubbledance. Uno sguardo lucido e appassionato sul suo presente artistico, ma anche su quello che verrà.

Ciao Anfisa, come stai? Ricordi il momento esatto in cui hai capito che volevi fare la DJ?

“Tutto bene, sto facendo le valigie per partire per un festival in Romania. Qui a Napoli fa un caldo… È una bella domanda. In realtà, non c’è stato un momento preciso in cui ho capito che volevo fare la DJ. Quando ero digger, ho iniziato ad andare in discoteca, e anche il concetto di discoteca in Italia era molto diffuso, proprio come adesso. Si andava a ballare con gli amici, sia d’estate all’aperto che d’inverno al chiuso. Poi, verso i diciott’anni, mi sono avvicinata al clubbing, proprio per puro caso: suonava questa musica minimal, molto ricercata, amplificata pazza, e ho iniziato ad avvicinarmi alla musica underground, alla techno e al clubbing in generale. Da lì è nata la mia curiosità, perché mi piaceva l’atmosfera, la situazione… mi sembrava molto figa. Si è creata questa connessione, e ho iniziato a frequentare le situazioni un po’ più underground dei club.”

Chi è stato il primo artista, DJ o producer, che ti ha fatto dire: “Voglio farlo anche io, ma a modo mio”?

“Vent’anni fa, a Napoli, la scena clubbing era ancora molto viva. lo è ancora oggi, ma fino a sette-otto anni fa era davvero intensa. C’erano dei promoter molto forti che portavano tantissimi artisti internazionali della musica elettronica. Si andava a ballare per ascoltarli: i nomi erano tanti, venivano spesso, e così ho iniziato a conoscere tutto, dall’house alla techno. Li ho sentiti un po’ tutti, e questa esperienza mi ha formato. Mi ha spinto a iniziare a lavorare in alcuni piccoli club di Napoli, un po’ come promoter, un po’ come disk selector. All’inizio era solo una selezione musicale mia, personale, puramente casuale, per creare un party, radunare gente, fare le liste. Da lì si creavano rapporti diretti: si conoscevano i promoter, ti invitavano a suonare nei loro club. Piano piano mi sono fatta la mia strada e ho iniziato a promuovere anche le mie serate. Ovviamente curavo la selezione musicale, si lavorava tanto, perché i locali erano sempre aperti: giovedì, venerdì, sabato, e la domenica pomeriggio si faceva sempre qualcosa. Frequentavo diverse feste, vari rave, e così, in modo organico, sono diventata una DJ.”

Hai superato molti pregiudizi in un ambiente ancora dominato dagli uomini. Hai mai sentito lo sguardo di qualcuno cambiare quando capisce che non sei solo una bella immagine, ma anche una dj e producer che spacca?

“Quindici, vent’anni fa, era molto più difficile, perché anche i promoter erano tutti uomini. Le ragazze non si incontravano facilmente nei club né come proprietarie, né come promoter, né come DJ. Eri un alieno in quella situazione. Per conquistarti un po’ di credibilità nell’ambiente dovevi fare tanto, dimostrare tanto. Oggi il pregiudizio esiste ancora, ma non da parte del pubblico giovane, assolutamente. Ormai è tutto molto più open: i nomi femminili nelle line-up sono sempre più importanti, e in molte parti del mondo dominano. Ci sono tantissime donne DJ bravissime, persone con cose da dire. I pregiudizi li leggi più sui social, nei commenti negativi, che nella realtà dei club. Quando sei lì e riesci a far divertire il pubblico, a farlo ballare, a fargli fare un viaggio attraverso la tua musica, allora vieni apprezzato, che tu sia uomo o donna. Il risultato finale è quello che conta. Anche grazie alla tecnologia, oggi è tutto molto più semplice.”

Carl Cox ha creduto in te sin dagli inizi. Come vi siete conosciuti?

“Se non sbaglio era il 2018, quindi non tantissimo tempo fa. Sono andata ad ascoltarlo: sapevo che aveva una serata in Sicilia, e con le mie amiche siamo partite. Io volevo solo fare una foto. Poi ho detto: ‘Vabbè, ascoltiamo la musica, tanto non è detto che riusciamo a beccarlo’. Con 10.000 persone è difficile. A parte che è inavvicinabile: non ti fanno proprio avvicinare. Devi avere fortuna. Io, però, sapevo dove alloggiava: il giorno prima dell’evento sono stata quasi tutto il giorno fuori dal suo hotel, prendendo il sole. Sapevo che quell’albergo era abbinato al locale, perché tutti gli artisti che suonavano lì dormivano lì. A un certo punto lui è uscito alla reception. Mi sono avvicinata, mi sono presentata e gli ho detto: ‘Carl, io non vedo l’ora di ascoltarti stasera. È la prima volta che ti sento live. Ho portato una USB con un po’ della mia musica, se ti va di darle un ascolto’. Mi ha detto: ‘Non ti preoccupare, salgo in camera e ci do un ascolto’. Io ero già felicissima per la foto e pensavo si sarebbe dimenticato tutto, come succede spesso. Invece, quella sera, ha iniziato a suonare le mie tracce. Incredibile. Lo chiamo miracolo. Dopo, mi ha scritto via e-mail dicendomi che la mia musica gli piaceva e che potevamo organizzare un’uscita sulla sua etichetta indipendente. È stato uno shock point nella mia carriera: da lì sono nate tantissime opportunità, ho cominciato a camminare oltre l’Italia. Etichette tedesche e berlinesi, come Rekids, Kompakt Records, Nervous, hanno parlato della mia musica, dei miei progetti, delle mie serate. Da lì è partito tutto. Io divido la mia carriera in due fasi: prima e dopo Carl Cox.”

Hai appena suonato a Ibiza ma che emozione sarà per te suonare il 17 agosto all’UNVRS con Carl Cox?

“Sono emozionatissima. Anche perché l’UNVRS, nella sua nuova veste, non l’ho ancora vissuto. Conoscevo quel posto come Privilege, che è stato per anni il miglior club del mondo. Dopo anni di chiusura, ora c’è questa nuova apertura, questo restyling. Suonare lì con Carl Cox è una garanzia: sarà una serata bellissima. È sempre una grande emozione. Tutte le volte che suoniamo insieme porto a casa dei ricordi stupendi. Le vibes sono sempre bellissime. Carl è una persona carismatica al massimo. Lo amo anche per questo. Sicuramente ci divertiremo.”

Le tue produzioni hanno un’identità molto precisa: groove ipnotici, voci sussurrate, tensione elegante. Come nasce una traccia di Anfisa Letyago, dall’idea alla pista?

“È una domanda complicata, ma potrei rispondere per ore. Non ho una formula precisa su quando e perché mi viene l’ispirazione. Però quando sento l’esigenza di andare in studio, vado. Apro il computer, accendo le macchine, voglio stare da sola. Chiudo i social, spengo il telefono. Nessuna contaminazione. Da lì parte il viaggio. Non arrivo lì pensando: ‘Oggi faccio una traccia’. Non funziona così. Porto le mie emozioni e sensazioni dentro la musica, e mi lascio andare. Tante volte non cerco feedback. Se finalizzo uno o più brani, non li mando in giro, perché sono molto gelosa della mia musica. È una cosa recente, questa. Ho capito che riesco a esprimermi meglio quando sono completamente sola. In quello spazio riesco a tirare fuori la mia vera essenza, la mia visione, la mia fase artistica del momento. Senza il rumore del mondo.”

Lavori da sola in studio o ti confronti con altri producer? E quanto è importante testare le tue tracce dal vivo prima di pubblicarle?

“Sicuramente, una volta che una traccia esce dallo studio, la porto in un club, a un festival, a testarla. Ogni luogo, ogni pubblico, ogni impianto ti dà sensazioni diverse. Capisci il balance dei suoni, cosa va modificato, cosa funziona. Prima di finalizzarla, cerco sempre di capire che tipo di reazione genera. Perché quando sei in studio vivi una dimensione intima. Quando la porti fuori, cambia tutto: il pubblico, l’energia, il vibe. Cambia anche da paese a paese. Cerco di assorbire tutto, e poi a casa decido se modificare qualcosa o lasciarla così com’è. È un processo lungo, ma preferisco così. Siamo giovani, abbiamo tanto tempo davanti.”

La tua etichetta indipendente, ispirata all’isola di Nisida, ha un’anima precisa. Come scegli gli artisti da pubblicare? Cosa deve avere un brano per entrare nel mondo della label?

“Ricevo tantissimi demo ogni giorno. Su venti o trenta che mi arrivano, magari due o tre mi attirano. È una questione di feeling. Non guardo la perfezione tecnica. Sento se c’è una connessione. Se mi trasmette qualcosa. È difficile da spiegare a parole cosa deve avere un artista per uscire con la mia label. Ma deve avere qualcosa da dire, deve sapermi toccare.”

Il tuo EP Bubbledance ha impiegato quasi un anno per prendere forma, tra studio e test in pista. 

In realtà molto di più. Testavo, capivo, rifacevo: una Neverending story, però alla fine ce l’abbiamo fatta”.

Hai lavorato in studio? L’hai corretto?

“In realtà, ho impiegato molto più di un anno. Testavo, rifacevo… una storia infinita. Alla fine, ce l’abbiamo fatta. I primi edit li suonavo dal vivo, ma ero molto egoista. Non mi interessava la reazione del pubblico: volevo solo che piacesse a me. Non volevo feedback, da nessuno. È stato un atto di puro egoismo. Volevo essere sicura che fosse esattamente ciò che volevo dire. Anche se non sono tracce da hit o da mainstage, sento che mi rappresentano. C’è dentro tutta la mia esperienza musicale, e per me va bene così. Deve piacere prima a me stessa.”

L’acqua è un tema ricorrente nel tuo lavoro (es. “Magic Whales”, “Partenope”, “Bubbledance”). Qual è stato il primo suono che hai associato al mare e come lo hai tradotto in una texture techno?

“Il mare è tutto per me. Sono dei Pesci, quindi ho un rapporto molto forte con l’acqua. Mi dà energia. Non potrei vivere lontana dal mare. Ho bisogno di guardarlo, di farmi un bagno. Anche il mio studio affaccia sul mare. Questa connessione si sente in tutto quello che faccio. In quasi tutte le mie produzioni c’è il suono del mare, che registro ogni anno e uso come texture. Mi calma. Spesso compongo guardando il mare, con le cuffie in spiaggia. Anche le voci che uso, ipnotiche, profonde, sono connesse con l’acqua. È tutto contaminato da questa energia.”

Dopo aver girato il mondo con la tua musica, c’è un luogo in cui ancora sogni di suonare? Un festival, un club, un posto anche insolito?

“Per me non conta il posto. Posso suonare anche nel cortile di casa mia, se il pubblico è quello giusto. L’importante è sentirmi capita, apprezzata. Poi certo, ci sono posti che sogno. Tipo l’Australia: non ci sono mai stata. Sarebbe davvero figo. Anche se è lontana, mi piacerebbe suonare lì.”

Se potessi creare un festival ideale con line-up e location a tua scelta, dove lo faresti e con chi divideresti la consolle?

“Non ho mai visto Björk fare un DJ set. Sarebbe bellissimo. Mi piacerebbe vederla proprio suonare, non cantare. Burial, per esempio, non ha mai fatto un live. Io ascolto tantissimo la sua musica. Se un giorno dovesse farlo, sarebbe incredibile sentirlo dal vivo. Quindi sì, se potessi creare un festival ideale, sceglierei artisti come loro. Rari, misteriosi, unici. In una location speciale. Sarebbe pazzesco.”

Qual è il tuo legame con Napoli?

“Vivo qui, e Napoli è tutto per me. Sono figlia di due emigrati, quindi Napoli è stato il punto fermo della mia vita. Qui ho la mia famiglia, i miei amici. Qui è nato tutto, anche il mio percorso musicale. Napoli è sul mare, ha un carisma fortissimo. È una città con una personalità che non tutti riescono a capire. Più che un luogo, è un mindset. Ha subito tante cose, ma non è mai cambiata. Per un’artista, Napoli è la musa perfetta. Non solo per chi fa musica: anche per chi dipinge, per chi fa moda. Qui c’è colore, movimento, energia. Quando ho bisogno di ricaricarmi, mi basta una passeggiata sul lungomare o nel centro storico. Napoli è caos, ma è vita. Ti carica. Tutta quell’energia, quando te la porti in studio, ti permette di creare. Io mi sento napoletana. Quando viaggio, mi manca. Amo scoprire posti nuovi, ma dopo qualche giorno sento il richiamo di casa. Napoli è casa.”





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