Mahmood a Roma: uno spettacolo che spacca il concetto stesso di concerto

da | Mag 21, 2025 | #Cromosomiintour

Mahmood fa tappa a Roma con il suo “N.L.D.A. Tour” e distrugge ogni aspettativa: non un concerto, ma un assalto sensoriale. Tra corpo, voce e visioni, lo spettacolo è una dichiarazione di potere artistico.

Altro che pop. Quello che Mahmood ha portato sul palco del Palazzo dello Sport il 20 maggio è un atto chirurgico di decostruzione dello show tradizionale. Un attacco frontale al formato del live italiano, dove spesso luci, ballerini e basi sono solo fondali posticci. Qui no. Qui ogni elemento brucia, taglia, colpisce. Ogni secondo è necessario. Ogni scelta è politica.

Il N.L.D.A. Tour non è uno show, è una messa laica con le casse dritte in faccia, in cui l’artista non intrattiene: domina, evoca, disintegra il concetto stesso di presenza scenica. E lo fa col corpo, con la voce, con lo sguardo. Mahmood non cerca consensi. Impone un’estetica, impone un ritmo, impone se stesso.

“Rave teatrale” è l’etichetta che si è scelto, ma è troppo gentile. Questo è un rituale urbano, spietato, coreografato con la precisione di un attacco militare – e con la stessa intensità. Il palco esplode e implode, passa dalla trance elettronica di Klan ai silenzi sospesi di Uramaki, cantata a cappella con una fan che sembra più un momento di verità cruda che un’ospitata casuale.

Il corpo di ballo, plasmato da Carlos Diaz Gandia, è feroce, ipersessuale, mai decorativo. Non accompagna: spinge, scompone, racconta. È la carne viva del sound. E Mahmood, nel mezzo, è un fulcro magnetico. Canta. Balla. Tiene il palco come se fosse casa sua e tu fossi lì per chiedergli il permesso di restare.

Niente ospiti. Perché quando sei così potente da bastare a te stesso, gli altri rischiano di diventare orpelli. C’è chi ha provato a fare uno show così in Italia, ma ha finito per sembrare solo rumoroso. Mahmood no. Lui sa dove colpire, e lo fa con precisione millimetrica.

E sì, l’acustica del Palalottomatica ha fatto la solita guerra al suono. Ma persino il riverbero storto non è riuscito a sporcare l’emissione vocale, che resta chirurgica, tagliente, piena di crepe vere. Perché qui, l’imperfezione non è un errore: è un’estetica.

Mahmood non ha più niente da dimostrare, eppure continua a stupire. Perché ogni volta che sale su un palco, lo riscrive. E Roma, ieri, non ha semplicemente assistito a un concerto: è stata attraversata da una visione. Un modo nuovo – più tagliente, più coraggioso, più necessario – di fare musica dal vivo.

Foto @ Giorgia Gallo

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