Immaginiamo un luogo dove musica e stand-up comedy si incontrano, dove risate e melodie si fondono per creare qualcosa di unico. Questo luogo esiste ed è il nuovo album di Ghemon, Una Cosetta Così, disponibile da venerdì 10 gennaio su tutte le piattaforme digitali e in un’esclusiva edizione vinile numerata e autografata. Un progetto che non è solo musica, ma un’esperienza innovativa nel panorama italiano.
Dopo quattro anni di attesa e oltre 70 repliche dello spettacolo cult che ha attraversato i teatri italiani, Ghemon torna con un disco che prende ispirazione proprio da quelle serate, scritto insieme a Carmine Del Grosso. Una Cosetta Così è il primo lavoro in Italia a unire la tradizione del teatro-canzone (che richiama giganti come Gaber e Jannacci) alla freschezza dei comedy album americani, rielaborandolo in uno stile tutto suo. Ghemon riesce a trasformare il palco in un luogo di confessione, risate e riflessione, intrecciando esilaranti performance dal vivo con brani inediti che spaziano tra hip hop, neo-soul e jazz contemporaneo.
La tracklist è una sorta di diario personale, un viaggio tra le storie e i pensieri che hanno animato lo show, culminato l’8 novembre con un trionfale gran finale al Teatro Arcimboldi di Milano. Tutti i monologhi dello spettacolo divisi in piccoli pezzi: si passa dalle follie del mondo del lavoro alle piccole-grandi disavventure quotidiane, dalle passioni sportive alle relazioni d’amore e familiari, fra ironia e profondità. Tra i brani inediti, spiccano i singoli anticipatori “POV” e “Sindrome di Stoccolma”, insieme a “Patto col Diavolo”, “Lungo il Tunnel” e “La Fine”. Ogni canzone porta con sé un pezzo della sua storia e del suo sguardo sul mondo.
Una Cosetta Così è la nuova dimensione di Ghemon tra comicità e riflessione
Una Cosetta Così non è semplicemente un disco o uno spettacolo: è un format che ridefinisce i confini della musica e della comicità, aprendo nuove strade per la scena italiana. Oltre ai piccoli pezzetti di monologo che caratterizzano il progetto, ci sono anche cinque brani.
“La Fine” ci regala un racconto emozionale che si muove tra vulnerabilità e rabbia. La canzone attraversa il dolore di una relazione finita, ma non solo: è un atto di autoanalisi che scava nel profondo, rivelando i limiti, le colpe e le cicatrici che restano. Ghemon si identifica come il “cattivo” nella narrazione dell’ex partner, sottolineando l’ingiustizia di una visione unilaterale. Si amplifica il peso delle bugie e delle accuse che hanno segnato la fine della relazione. È un tema universale: quante volte, nella fine di una storia, cerchiamo un colpevole per giustificare il dolore?
Ghemon non si nasconde dietro una rabbia sterile, ma ammette le proprie fragilità, accettando il peso delle aspettative disattese. È una confessione che ci avvicina a lui, perché parla di imperfezioni che tutti, in qualche misura, conosciamo. D’altro canto, la figura della ex diventa quasi patologica. Anche nell’assenza, l’altro continua a esercitare un controllo silenzioso, una compagnia involontaria che Ghemon combatte con la forza della consapevolezza.
Chi avrebbe mai detto che all’inizio avresti scritto la fine?
Una fine amara, sì, ma con una bellezza che solo chi sa affrontare il dolore può raccontare.
“Lungo il Tunnel” è un racconto che parla di cadute, ma soprattutto di risalite. Il tunnel, metafora centrale della canzone, diventa un simbolo delle difficoltà che ognuno di noi attraversa, ma anche della luce che ci aspetta alla fine, purché non ci fermiamo. Parte un invito a ripensare a quei momenti, un richiamo nostalgico che porta l’ascoltatore indietro nel tempo. Ghemon racconta la sensazione di staticità e insoddisfazione, descrivendo scene quotidiane. Sono immagini semplici: chi non ha mai vissuto periodi in cui si è sentito bloccato, sperando in una svolta che tarda ad arrivare?
Sembrava che durasse per sempre, ma niente è per l’eternità
Qui Ghemon ci ricorda che anche le fasi più difficili sono temporanee. Questo passaggio, che potrebbe sembrare un’ovvietà, diventa un messaggio di speranza: il cambiamento è possibile, anche quando sembra lontano. La luce alla fine del tunnel non è un trucco, non è magia. È il risultato dell’andare avanti, un passo alla volta, senza arrendersi.
Ghemon dà voce alle critiche e ai dubbi che ha affrontato, probabilmente non solo come artista, ma anche come persona. Questa parte della canzone è un promemoria di come le opinioni altrui possano minare la nostra fiducia, ma anche di quanto sia importante ignorarle e andare avanti.

“POV”: quando la verità non ha paura di ferire
Con “POV” si passa a riflessioni amare, autocritiche e un filo di rivalsa. La canzone si muove tra introspezione e osservazione sociale, in cui la prospettiva, il point of view, diventa la lente attraverso cui interpretare il mondo e sé stessi. È una traccia che ci spinge a interrogarci sul nostro ruolo nella società.
Ghemon non teme di affrontare la realtà, anche quando potrebbe ritorcersi contro di lui. In un mondo ossessionato dall’apparenza, sceglie la sincerità, un atto rivoluzionario che lo posiziona controcorrente rispetto alla “timeline” virtuale fatta di post e ostentazione. La critica alla superficialità e al narcisismo digitale emerge chiaramente, fotografando il nostro presente, dove il valore personale sembra misurato dai “like” e dalla capacità di attirare attenzione, anche a costo di sacrificare autenticità e dignità.
Gianluca ha la necessità di proteggere la propria integrità e identità, anche in un contesto che sembra volerle schiacciare. Chi non ha mai oscillato tra il desiderio di lasciar andare e quello di rispondere colpo su colpo? Poi ammette che il passato, con le sue ferite, continua a influenzarlo, ma non spegne la luce interiore che lo guida. È una dichiarazione che invita a trovare forza nelle proprie cicatrici.
Una delle parti più toccanti del brano è il riferimento al padre e alle lezioni apprese con il tempo. Ghemon rievoca i consigli paterni con rispetto e amarezza, ammettendo che ci sono verità che si comprendono solo vivendo. Non ha paura di mostrarsi vulnerabile, dimostrando che la crescita personale passa inevitabilmente attraverso il riconoscimento dei propri sbagli.
Ghemon ci invita a guardare il mondo da un’angolazione diversa, sfidando le convenzioni e le aspettative. La sua prospettiva non è quella di chi si conforma, ma di chi osserva, riflette e agisce con consapevolezza.
La battaglia contro il “male”: Ghemon tra caos interiore e relazioni tossiche
Con “Patto col Diavolo” e “Sindrome di Stoccolma”, Ghemon ci porta nel cuore di due lotte diverse ma complementari: quella contro il male esterno, incarnato da relazioni tossiche e manipolazioni, e quella contro il caos interiore, che spesso ci ostacola tanto quanto ci spinge a cambiare.
“Patto col Diavolo” è una dichiarazione di indipendenza da chi cerca di controllare e corrompere. Ghemon personifica il tradimento come un’entità maligna, un diavolo pronto a offrirci il suo “patto” in cambio della nostra anima. “Non faccio patti col diavolo” ripete nel ritornello, trasformando questa frase in un mantra. Ma il punto centrale non è il male stesso, bensì la forza di opporvisi senza scendere a compromessi.
“Sindrome di Stoccolma”, invece, sposta il focus sull’introspezione, esplorando il rapporto conflittuale con le proprie ombre. Ghemon descrive il caos interno come un compagno di vita che, pur trattenendoci, ci definisce e ci spinge a evolvere, mettendo in luce una contraddizione che tutti, in qualche modo, conosciamo.
È la cosa di me che mi spinge in avanti, ma poi mi trattiene
Il titolo, che richiama il legame tra vittima e carnefice, diventa una metafora per il legame con quella parte di sé che si nutre di dubbi e oscurità. “Se attorno ho il caos che mi abbraccia, dentro c’è lo stesso casino”, canta, riconoscendo che il disordine esterno riflette spesso quello interno. Ma anziché combatterlo, Ghemon invita a conviverci, a concentrarsi su ciò che si ha anziché su ciò che manca:
Conta più quello che c’è

Dietro le quinte di Una Cosetta Cosí
Noi di Cromosomi abbiamo avuto il piacere di scambiare quattro chiacchiere con Ghemon in occasione dell’uscita del suo nuovo album. Un incontro che è stato molto più di un’intervista: una conversazione autentica, profonda e ricca di spunti, proprio come la sua musica. Tra aneddoti, riflessioni e racconti dietro le quinte, Ghemon ci ha aperto le porte del suo mondo artistico e personale. Ecco cosa ci ha raccontato!
Ciao Gianluca! Come stai? Intanto grazie, perché ascoltando l’album ho riso tantissimo. Una Cosetta Così è un progetto innovativo che fonde stand-up comedy e musica. Qual è stata la scintilla che ti ha spinto a unire questi due mondi?
Sono molto contento, questo commento mi fa davvero piacere. Sto bene, grazie. La scintilla che ha dato vita a tutto è sicuramente la passione per entrambe le cose: la musica e la stand-up comedy. Avevo il desiderio di esplorare qualcosa di nuovo che sentivo parte di me, come la stand-up, senza però rinunciare alla musica, perché non ho certo smesso di essere un cantante.
Credo che le due dimensioni possano convivere in perfetto equilibrio. È un po’ come quando pubblicai “Orchidea di Mezzanotte” e qualcuno disse che avevo smesso di fare rap. In realtà non è mai accaduto, ho continuato a rappare. Penso che a volte manchi un po’ di immaginazione: si tende a pensare che, se una persona inizia qualcosa di nuovo, debba necessariamente abbandonare ciò che faceva prima, come se cambiare strada significasse lasciare il passato alle spalle. Io, invece, sono fatto in un’altra maniera. Mi piace poter esprimermi in modi diversi, esplorando ogni possibilità creativa.
Mi piace fare un parallelo: è come quando apri Google Maps, inserisci la destinazione e il navigatore ti offre varie opzioni per arrivarci. Puoi metterci 10 minuti in macchina, 20 in bicicletta, 18 a piedi o 14 con i mezzi. Per me, ogni mezzo rappresenta un linguaggio diverso: ci metto tre minuti con il rap, cinque con la stand-up, dieci con un libro, quindici con una canzone. Sono modi diversi, ma ugualmente belli, per raccontare quello che ho dentro. Ecco, con questo disco mi sembrava giusto alternare un pezzo “a piedi” e un pezzo “in macchina” per arrivare dove volevo.
Ci sono state delle sfide che hai affrontato nel raccontarti durante gli spettacoli?
Molte, tantissime sfide. Prima di tutto, perché siamo persone, e capita di salire sul palco e pensare: “Ma davvero state ascoltando tutti i fatti miei?”. È un dubbio che ti viene, ma poi vedi che il pubblico è lì, non si alza, non se ne va, anzi, ride e partecipa. Ci sono stati momenti in cui questo spettacolo ha attraversato delle vere difficoltà, arrivando persino a rischiare la sua stessa esistenza. Inizialmente poteva sembrare un esperimento, qualcosa che proponevo di fronte al mio pubblico abituale, fatto di persone che mi volevano bene e che già seguivano la mia musica. Ma io non ero d’accordo nel trattarlo come un esperimento. Per me non lo era affatto: era la mia realtà, quello che volevo fare in quel momento. Per questo, ho deciso di portarlo davanti a un pubblico diverso, non necessariamente composto dai miei fan. L’ho presentato in contesti più aperti, a volte gratuiti, dove chiunque poteva assistere, magari anche persone che non conoscevano la mia musica. In quelle situazioni devi sapertela cavare davvero. Questo spettacolo, in generale, ha affrontato tante sfide e superato molte prove, ed è proprio questo a renderlo così speciale.
L’idea di frammentare i monologhi in piccoli pezzi, come i comedy album americani, è perfetta per la fruizione moderna. Come hai lavorato per rendere ogni pezzo così immediato?
Devo dire che conoscevo bene i miei monologhi, quindi sapevo dove fosse necessario intervenire per fare dei tagli. Dal vivo erano strutturati come monologhi tematici di circa venti minuti, che si concludevano con una canzone. Per l’album, ho semplicemente cercato di applicare i tagli giusti, in modo che, anche ascoltando solo tre minuti, si potesse cogliere il senso generale del discorso. L’obiettivo era creare qualcosa che funzionasse sia per chi volesse ascoltare tutto di fila, sia per chi volesse tornare su un momento specifico che aveva trovato particolarmente divertente o stimolante. Lo spettacolo, infatti, alterna momenti leggeri a riflessioni più serie. Con tagli mirati, è più semplice ritrovare una parte che ti aveva colpito, mentre con un audio di venti minuti risulta molto più difficile individuare la frase o il passaggio che avevi in mente.
Sei un artista poliedrico: dalla musica al libro, dal podcast alla pallacanestro. Cosa hai scoperto di te stesso passando per tutte queste forme artistiche?
Ho scoperto tantissime cose. Sicuramente, una delle più importanti è che non mi piace mostrarmi, ma amo comunicare ciò che penso. Non sono mai stato il tipo di persona che desidera stare al centro dell’attenzione, né da ragazzino né da adulto. Non sono quello che, durante una festa tra amici, prende la chitarra e si mette a cantare davanti a tutti. Però, quando sento di avere qualcosa da dire o da condividere, non mi tiro indietro: a volte lo faccio in un modo, a volte in un altro. Questo è probabilmente l’aspetto che ho capito meglio di me stesso. Durante questo spettacolo, molte persone che mi conoscono nella vita privata mi hanno detto di aver visto, sul palco, la versione più autentica e spontanea di me. Sono d’accordo con loro. Nonostante le difficoltà di raccontarsi davanti a persone sconosciute, ho trovato naturale farlo, riuscendo a suscitare risate e, in alcuni casi, persino qualche lacrima.
Se dovessi spiegare a un giovane artista cosa significa davvero “cambiare pelle” per evolversi, quale consiglio daresti?
Sto scrivendo un libro su questo argomento, quindi ti dò un’anteprima. Ci sono due aspetti fondamentali che ritengo importanti. Il primo è documentarsi. Raccogliere informazioni e mantenersi aggiornati è essenziale, perché spesso, quando le persone non sono informate, tendono a vedere le cose da un’unica prospettiva. Succede nel rap, così come nella stand-up comedy. Ad esempio, molti pensano che il rap si faccia solo in un modo, come il gangsta rap, ma non è affatto così. Esistono infinite sfumature, e chi si informa può imparare ad apprezzare e a conoscere meglio l’ampiezza di questa forma d’arte. Lo stesso vale per la stand-up comedy: ci sono tanti modi di farla. Ci sono i comici che fanno satira politica, quelli che si concentrano su battute veloci e quelli che portano in scena veri e propri racconti. Non si può definire la stand-up basandosi su un reel o un TikTok. Più ci si informa, più si amplia il proprio orizzonte, e questo apre anche nuove possibilità di contaminazione tra le arti. Ai margini di ogni forma d’arte ci sono punti di contatto con altre forme creative, che possono ispirare nuovi percorsi e modi di esprimersi. Il secondo aspetto è la pratica. Per trasformare un’idea in qualcosa di concreto bisogna agire, nonostante la paura. La teoria è importante, ma da sola non basta: se non si mette in pratica ciò che si apprende, non si cresce. Non esiste un diploma che decreti se sei un jazzista, un rapper o un comico; lo diventi facendolo. Serve cultura, ma serve anche coraggio.
Nell’album ci sono anche cinque brani. Com’è nata “Lungo il tunnel” e quanto di quel tunnel rappresenta la tua crescita?
“Lungo il Tunnel” è nata in modo molto spontaneo, durante una giornata in studio con Giuliano Vozella e Sup Nasa, con cui collaboro spesso. La musica, in quel momento, mi trasmetteva esattamente ciò che volevo raccontare: qualcosa che riassumesse sia le esperienze legate allo spettacolo, sia altri momenti significativi della mia vita. La canzone chiude un monologo che riflette sul tema dell’aver iniziato nuove strade, mentre altri approfittavano delle porte che avevi aperto tu. Parla di lavoro, di vita, di situazioni che sono finite in modo diverso da quanto ti aspettavi. Quando accade, è normale provare delusione o attraversare momenti di difficoltà e tristezza. Spesso ti senti come bloccato, mentre aprendo Instagram ti sembra che gli altri siano sempre intenti a festeggiare e a vivere momenti perfetti.“Lungo il Tunnel” racconta proprio questo: invita a guardarsi indietro e riflettere su come stavi prima rispetto a dove sei adesso. Magari un anno fa pensavi che non avresti mai superato certe situazioni, eppure eccoti qui. Alla fine, il segreto è uno solo: attraversare il tunnel, continuare ad andare avanti. Non c’è altro da fare.
Infatti mi piace la frase “Non c’è nessun trucco speciale, devi solamente andare”: sembra una frase motivazionale.
Lo è in realtà, è l’unica. Nella vita non c’è altro. Quando sei in un momento di difficoltà bisogna solo avere la forza e il coraggio di andare avanti.
“POV” è un brano che critica la superficialità di oggi. Quanto ti senti in contrasto con l’immagine costruita dalla società, soprattutto sui social?
Mi sento piuttosto in contrasto su questo tema, perché, pur facendo parte di questo mondo, ne sono vittima anch’io. I social, in un modo o nell’altro, riescono a colpire quel lato di noi che è più vulnerabile. Allo stesso tempo, però, c’è un’affermazione forte da parte mia: ho capito quali sono le dinamiche di questo sistema, ho preso consapevolezza di ciò che voglio per la mia vita e ho scelto di essere fedele a me stesso. Non voglio seguire schemi che non mi appartengono, anche se spesso questo significa andare controcorrente. Continuo a scegliere questa strada, anche se può sembrare una sfida, perché credo che essere coerenti con sé stessi, alla lunga, paghi. Andrò avanti controcorrente finché non troverò una mia pace, o una forma di rivalsa, dimostrando che, alla fine, essere autentici è la scelta giusta.
Quanto è difficile mantenere la propria autenticità nel mondo dello spettacolo?
Non solo nel mondo dello spettacolo, ma anche nella vita in generale è molto difficile essere autentici. La vita è fatta di compromessi, e il mondo dello spettacolo non fa eccezione, anche se è spesso associato a luci e lustrini. Sul palco è particolarmente complesso, perché ciò che vediamo è sempre, in qualche modo, una rappresentazione. Quella persona sul palco non è necessariamente la stessa che è nella vita reale. Essere autentici, quindi, diventa una sfida. Per quanto mi riguarda, però, non saprei fare altrimenti. Sono fatto così, e i valori con cui mi confronto ogni giorno mi spingono a rimanere fedele a me stesso, anche se è difficile. In questo momento, mi sento felice del “contenitore” che ho creato: è un sistema che non mi obbliga a giocare secondo le regole tradizionali della discografia o dello spettacolo. Certo, inevitabilmente mi scontro con quelle regole, ma sono contento della mia “piccola barca a vela” in mezzo alle grandi navi da crociera. Quando avrò superato il traffico e raggiunto il mare aperto, solo allora potrò dire che ne sarà valsa davvero la pena.
“Sei fai solo caso a quello che manca, ti perdi il segreto perché conta più quello che c’è”. Come questo messaggio si riflette nella tua filosofia di vita?
È un aspetto fondamentale, ma anche una sfida che affronto con fatica ogni giorno. A volte, alcuni versi delle mie canzoni funzionano come post-it, piccoli promemoria per ricordarmi ciò a cui devo fare più attenzione. Quando parlo a me stesso in modo autentico, mi rendo conto che spesso chi ascolta si ritrova in quelle stesse parole. Non perché abbia il mio stesso carattere, ma perché nella vita ci troviamo tutti ad affrontare pensieri ed esperienze simili. Queste frasi non le scrivo dall’alto di una presunta saggezza, ma come promemoria per me stesso, per non dimenticare che ciò che abbiamo conta più di ciò che ci manca. È un modo per rimanere fedele ai miei pensieri e, al tempo stesso, per creare una connessione autentica con chi vive situazioni simili.
Dove immagini che ti porterà il tuo prossimo passo artistico? Oltre allo spoiler sulla scrittura del libro.
Certo. A un altro spettacolo che sia la prosecuzione di questo ma che comunque è un’opera prima e che sia più divertente e sofisticato. Magari riuscirò ad esprimermi oltre a cose personali anche su situazioni del mondo e dettagli che mi fanno sorridere. Penso che il prossimo spettacolo sia la cosa a cui in questo momento sto pensando di più.