Cosa ci rimarrà di questo sonnecchiante Sanremo 2025

da | Feb 17, 2025 | News

Giunta al termine la settimana santa di Sanremo 2025, è l'ora di trarre delle conclusioni. Il tempo è sempre la prova del nove.

Giunta al termine la settimana santa di Sanremo 2025, è l’ora di trarre delle conclusioni. Il tempo è sempre la prova del nove per l’importanza di ciò che si è visto e, come dopo ogni Festival, siamo qui a ricostruire quello che è stato. Ma, soprattutto, ciò che ci ha lasciato.

Partiamo dal presupposto che questa 75esima edizione non ci ha lasciato granché, se non tanti ‘e se…?‘.

La direzione artistica e la conduzione di Carlo Conti hanno dato un taglio completamente diverso al prodotto finale. Non tanto per i concorrenti o per i generi portati sul palco dell’Ariston, che sono stati comunque variegati da ogni punto di vista, quanto per la gestione e il tono dato al Festival. Ci siamo ritrovati davanti a un Sanremo serio, quasi solenne nelle sue pratiche, che non ha tempo da perdere neanche per consolare un’artista visibilmente commossa al termine della sua esibizione (ci dispiace, Francesca Michielin).

Ogni intervento esterno, ciascuno passato sotto il microscopio, è stato misurato col contagocce. Nulla di superfluo: venti minuti di scena per i super-ospiti internazionali e cinque massimo per quelli locali. Uno script rispettato pedissequamente, che ha distrutto la narrazione più spontanea voluta da Amadeus negli scorsi cinque anni. Pochissimi scambi di battute fra conduttore e co-conduttori/conduttrici, zero improvvisazione, siparietti simpatici da contare sulle dita di una mano.

Da una parte il nostro ciclo circadiano che ci ringrazia, dall’altro il turbo-capitalismo che bussa anche alle porte di Sanremo 2025. A te la scelta.

Insomma, la visione delle serate ci ha lasciato un senso di fretta quasi angoscioso. Un riflesso della nostra vita sempre di corsa? Sicuramente. Una cosa da tenere in considerazione, però, è che se guardiamo Sanremo, lo facciamo per evadere con la musica. E questo la nuova direzione pare non averlo capito.

Un Festival che molti, sui social, non hanno stentato a definire di destra. Sentendoci in parte di scomodare il maestro Giorgio Gaber, siamo d’accordo sul fatto che tutto sia politica. Su questo non ci piove. Però, più che di politica, a noi è sembrato che questa kermesse sia stata semplicemente lo specchio dei tempi in cui viviamo e della buona maggior parte della popolazione (come sempre, ciò che viene rappresentato è ciò che passa dall’oligarchia al potere).

E’ per questo che ci siamo ritrovati con la fastidiosa retorica della ‘malata di cancro=guerriera‘ (e grazie a Bianca Balti per averla distrutta con due parole), del ‘una grande professionista, ma soprattutto una grande madre‘ (questa volta ringraziamo Geppi Cucciari) e via dicendo. Ma di cosa ci stupiamo? Non ce ne voglia Carlo Conti, che stimiamo come professionista, ma per l’ennesima volta la conduzione e la direzione artistica sono andate in mano a un uomo bianco (anche se le lampade ci confondono, a volte), sulla sessantina, ricco, con un certo status, e che ha sempre lavorato per la Rai.

Si poteva dare spazio ai giovani, ad altri punti di vista? Certo. Alessandro Cattelan, alle prese con il Dopofestival, sarebbe stato perfetto ma, proprio per la ventata d’aria fresca forse troppo forte che avrebbe portato, è stato relegato alla tarda nottata.

E, per quanto ci riguarda, una grande assenza di questa edizione è la critica sociale. Non un artista (se non Willie Peyote con la sua Grazie ma no grazie) che ha parlato di quello. Non un artista che ha aperto bocca per denunciare il genocidio palestinese o la guerra in Ucraina (o qualsiasi altro conflitto che noi occidentali non sappiamo neanche esistere). L’unico riferimento del Festival a un tema di interesse internazionale? Un duetto fra una cantante israeliana e… un’altra cantante israeliana, ma con origini palestinesi. Come al solito, schierati dalla parte d’Israele per partito preso. E un discutibile videomessaggio di Papa Francesco sulla pace in Medio Oriente. Al solito, abbiamo dimostrato che l’Italia non è un Paese laico, ma pienamente confessionale. Non abbiamo fatto tanti passi dal 1929, no?

Per il resto, un Festival piatto, un po’ sonnecchiante. Tante, tantissime canzoni in mood sanremese, ancora di più tormentoni. Sono pochi i pezzi che ci hanno colpito per composizione, arrangiamento, linee vocali e testi. Abbiamo stilato la nostra classifica onesta, ma come si può vedere anche da lì, più di 8,5 non potevamo dare nemmeno al nostro primo classificato. La noia, scossa solo dall’insoddisfazione per l’esclusione dalla top 5 di Achille Lauro e Giorgia (le sue lacrime non ci sono andate proprio giù). Un’unica meteora impazzita: l’irresistibile e irrefrenabile Lucio Corsi. Con la sua teatralità sghemba, ci ha cantato tutto quello che il Festival è stato, senza nemmeno rendersene conto. Un gioco per duri, per persone sicure e inquadrate. Ma, molte volte, per resistere anche alle situazioni più dure, basta essere se stessi. E quindi, anche davanti a questo Sanremo 2025 decisamente sonnecchiante, non siamo altro che Lucio.

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